Siete a un incrocio e state per svoltare a destra, quando un motorino vi tampona. Il conducente confessa di essersi accorto di voi quando ormai era troppo tardi: forse è andata proprio così. Fate tutti gli accertamenti, tornate a casa e l’indomani non ci pensate più. Probabilmente, nel vostro cervello la parte sinistra del solco temporale superiore anteriore (aSTS) contiene più materia grigia di chi, al contrario di voi, è meno incline a giustificare un torto ricevuto.
È con questo efficace esempio che inizia l’articolo Le basi neuroanatomiche dei giudizi morali, pubblicato presso la rivista mensile Mente e cervello e scritto dalla neurobiologa Sara Mohammad Abdellatif. L’intento del testo è quello di proporre al pubblico della testata i recenti sviluppi dello studio – condotto principalmente dall’équipe di ricerca di Giorgia Silani, provenienti dalla SISSA di Trieste, dall’Università di Trieste, dall’Università di Vienna e dal Boston College – sulle correlazioni esistenti tra la formulazione di un cosiddetto “giudizio morale” sulle intenzioni dell’attuatore di un danno involontario e le variazioni di volume della materia grigia nella zona di riferimento.
Disponibile su Scientific Reports, lo studio in questione, denominato Neuroanatomical correlates of forgiving unintentional harms, cercherebbe di dimostrare come i soggetti che possiedono una porzione maggiore di materia grigia in questo solco siano più capaci di rappresentarsi l’intenzionalità della persona che ha compiuto il danno, riconoscendone la non-volontarietà e ritenendola prioritaria, ai fini del giudizio, rispetto agli effetti – seppur gravi – causati dal danno stesso. In tal senso, sarebbe più semplice per questi individui “perdonare” un gesto involontario lesivo e non, magari, inveire o vendicarsi.
Una prospettiva così innovativa potrebbe facilmente generare stupore o eventuali accuse di presunto “determinismo biologico”. La presenza di Lombroso, dopotutto, è sempre dietro l’angolo. È necessario, quindi, esplicitare – per maggiore onestà nei confronti dello studio qui citato – che non si intende in alcun modo postulare una causalità diretta e determinante tra i due elementi presi in esame, bensì una correlazione, un’influenza. Non si può ignorare, di certo, che la neuroanatomia abbia un peso nei nostri processi di mentalizzazione, ovvero nella nostra capacità di raffigurarsi lo stato mentale proprio e degli altri, ma allo stesso tempo è necessario contestualizzarla per evitare forme di eccessiva semplificazione.
Resta ancora un quesito aperto, difatti, la correlazione tra questo sviluppo cerebrale e le eventuali stimolazioni ambientali e modificazioni epigenetiche che potrebbero averlo determinato.
La ricerca ha contemplato un campione di cinquanta soggetti, tutti volontari, ai quali è stato somministrato un questionario con trentasei casi differenti, sui quali gli intervistati dovevano esprimere un giudizio, rispondendo alle domande “Quanto è da ritenersi colpevole il/la protagonista di questa storia? E quanto è moralmente accettabile il comportamento del/la protagonista?”, con una votazione da uno a sette. Tutti, come è facile immaginare, erano monitorati attraverso risonanza magnetica.
Per la prima volta, nel campo della ricerca neuroscientifica, si è cercato di fornire – come è ben descritto nell’abstract dello studio – un ulteriore sostegno al ruolo fondamentale della mentalizzazione nel “perdono” di danni accidentali e (…) una prima prova della base neuroanatomica delle differenze individuali nei giudizi morali (Our findings provide further support for the key role of mentalizing in the forgiveness of accidental harms and contribute preliminary evidence for the neuroanatomical basis of individual differences in moral judgments).
Ogni nuova ipotesi sul funzionamento della mente umana permette all’uomo di continuare il proprio processo di auto-conoscenza, cercando di promuovere un’onesta visione dell’universo antropico, in continua e costante relazione con tutti gli elementi e i prodotti dello stesso. È necessario continuare a interrogare le scienze, a intrecciarle in discorsi eterogenei che possano permetterci di avvicinarci – in modo asintotico, ma necessario – alla consapevolezza di chi siamo e di cosa, in un certo senso, abbiamo dentro.