Chi dice che in Italia non si affronta il tema delle pari opportunità sostiene una bugia. Nel nostro paese, infatti, ogni mattina qualcuno lo aggiunge all’ordine del giorno e lo butta lì, tra un caffè e un piatto di pasta, per poi, tra una pausa e un’altra, fare qualche battuta a riguardo. In effetti, il punto non è che non se ne parla, ma come, cioè male.
Gli ultimi a intavolare il discorso questa volta sono stati i pentastellati romani. È della giunta capitanata da Virginia Raggi, infatti, la proposta di modifica dello Statuto di Roma Capitale – più precisamente degli articoli 25 e 27 – che, di fatto, andrebbe a intaccare l’annosa questione legata alle quote rosa che si vedrebbero, così, ridotte a una percentuale più bassa di quella attuale.
Se si modificassero entrambi i commi presi di mira, infatti, si altererebbe il numero della Commissione delle Elette – variando il suo nome in Commissione per le Pari Opportunità – che non sarebbe più costituita da tutte le elette, appunto, ma da dodici di esse. Inoltre, la dicitura che fino a ora garantisce la presenza, di norma in pari numero, di entrambi i sessi, motivando le scelte difformemente operate con specifico riferimento al principio di pari opportunità si trasformerebbe in fra i nominati è garantita la presenza di entrambi i sessi, rimandando alla normativa statale. Di fatto, dal 50% di rappresentanza assicurato alle donne, si arriverebbe al 40%. Dunque, una rettifica, quella firmata da diciassette consiglieri del Movimento 5 Stelle, che rischierebbe di compromettere in modo decisivo la partecipazione del genere femminile alla vita politica della giunta capitolina e delle altre municipalità.
Le reazioni delle opposizioni, ovviamente, non si sono fatte attendere. Da Sinistra Italiana a Forza Italia, infatti, in molti si sono dichiarati contrari. Prime tra tutti a ribellarsi, però, sono state le consigliere del Partito Democratico attraverso le voci di Valeria Baglio e Ilaria Tempesta che in una nota hanno definito l’ipotesi di cambiamento come un vergognoso colpo di mano.
Ancora una volta ci troviamo a dover intervenire per ricordare alla maggioranza grillina in Campidoglio che per svolgere il ruolo di amministratori è indispensabile studiare e non lanciarsi in pericolose improvvisate dell’ultima ora, hanno aggiunto. Con la proposta di modifica dello statuto di Roma Capitale, vengono eliminate le parole chiave per la rappresentanza di genere e la parità di entrambi i sessi. […] Un atto per di più illegittimo dato che, con questa modifica, si superano le norme del Testo unico degli enti locali. Noi su questo daremo battaglia. Ci aspettiamo che la prima sindaca donna di questa città richiami la sua maggioranza a ben più miti consigli.
A rispondere loro ci ha pensato direttamente Virginia Raggi: Sono sempre stata a favore della presenza delle donne nelle istituzioni. Lo dico a chi vuole far passare l’idea che io sia contraria per chissà quali assurdi motivi. Quando penso che sono la prima donna sindaca di Roma sono orgogliosa, ma soprattutto sento la responsabilità di rappresentare tante donne come me. […] Tra i consiglieri capitolini M5S le donne rappresentano la maggioranza. Credo che uomini e donne debbano lavorare insieme nell’interesse dei cittadini. Ma soprattutto credo che debbano avere le stesse opportunità. Il resto sono chiacchiere per i vecchi politicanti lontani dalle persone reali.
A darle man forte Gemma Guerrini, Presidente della Commissione Elette del Campidoglio e Angelo Sturni, Presidente della Commissione Roma Capitale: Non c’è nessuna abolizione delle pari opportunità, ci rifacciamo soltanto ai parametri della legge nazionale. Più deciso, invece, Marcello De Vito, Presidente dell’Assemblea Capitolina: L’amministrazione M5S impronta le sue scelte sul merito. Prima di considerare se sia donna o uomo, conta verificare la professionalità del candidato. Ben venga scegliere sole donne, o viceversa, se tra loro ci sono i candidati più validi.
Sebbene si sia ancora in una fase piuttosto incipiente e l’iter dell’eventuale modifica ancora non avviato, è evidente che la polemica – che dal piano dei diritti si è spostato a quello partitico – non sembra intenzionata a placarsi in tempi brevi. In realtà, il discorso legato alla parità dei sessi e alle pari opportunità da offrire loro è di gran lunga più ampio e di lontana risoluzione, soprattutto in una società piuttosto retrograda come la nostra.
In un mondo ideale la mozione avanzata dai pentastellati probabilmente non farebbe tanto rumore. Il merito come parametro di giudizio, infatti, dovrebbe essere alla base di qualsiasi contesto lavorativo, senza che nessuna norma o articolo statutario lo puntualizzi e a prescindere che quel merito porti la cravatta o i tacchi. Allo stesso tempo, però, in un paese che ha bisogno di parlare di quote rosa e la necessità di difenderle a denti stretti, il discorso di cui sopra crolla e si svuota del suo valore. Inutile nasconderlo: le donne che vogliono lavorare, in Italia, non hanno tutele e nemmeno troppe possibilità.
A sostenerlo, oltre a un decreto che stabilisca che – per forza – si assuma un certo numero di dipendenti di entrambi i sessi, infatti, i dati sui divari tra i salari percepiti da uomini e donne confermano amaramente la nostra tesi. Nonostante una legge promulgata nel tardo 1970 al fine di tutelare le discriminazioni di genere a livello salariale, infatti, il reddito complessivo tra i primi e le seconde continua a non essere uguale. Al di là della già importante disparità di circa il 6% per ciò che concerne un’ora di lavoro, in realtà, il gap sostanziale è riscontrabile sulla lunga distanza. Se si valutano voci non secondarie quali tipologia di contratto, premi, straordinari, ma anche di quantitativo di lavoro svolto, infatti, risulta sempre più palese come una donna guadagni meno di un uomo, anche a parità di mansioni e/o competenze. La cruda verità è che a qualsiasi livello lavorativo, oggi come ieri, un membro del gentil sesso si ammette in squadra con una crescente e costante diffidenza dovuta, soprattutto, alla possibilità di procreazione e a tutto quanto questa rischi di comportare anche in termini economici per un’azienda. Lo si percepisce subito, sin dai colloqui, concentrati ormai più sulla vita privata che sul proprio curriculum. Ciò che conta non è sapere cosa una donzella sia in grado di fare, ma se abbia intenzione o meno di prendere marito e avere dei figli. Da tale risposta, spesso, dipende l’intera chiacchierata. Non è difficile, poi, comprendere che, di conseguenza, anche i termini pensionistici subiscano notevoli variazioni. Una tenera nonnina potrà fare sempre meno regali ai suoi nipotini rispetto al suo compagno di vita.
Il gender gap, in aggiunta alle numerosissime discrepanze di una società prevalentemente maschilista e raccomandata, ci aiuta a capire meglio, dunque, perché una proposta come quella a 5 Stelle faccia tentennare. Quando su ogni annuncio di lavoro chi lo dirama tiene molto a precisare di essere in cerca di una giovane massimo venticinquenne e di bella presenza – che, poi, alzando di poco l’asticella dell’età, è lo stesso discorso di natura berlusconiana che si fa per entrare in politica –, il vincolo delle quote rosa, nei fatti pura fuffa, appare un palliativo a cui rinunciare spaventa. Se, quindi, a partire dalla giunta romana si iniziasse a scioglierlo, probabilmente si finirebbe con il tornare a quando il lavoro, quello vero, quello importante, era solo un’attività da maschio senza la speranza che si possa dar spazio anche a noi altre, relegate, nuovamente, a sognare tutt’al più un incarico da segretaria. L’unico che per qualche arcano motivo, da sempre, pare sappiamo fare solo noi.
Al Sindaco di Roma e alla sua giunta, dunque, l’invito è di lasciar perdere lo statuto, quantomeno nei commi incriminati, e di concentrarsi a cambiare le cose dall’interno, loro che possono, comodi sulle poltrone che contano, abbandonando gli slogan e concentrandosi davvero sui meriti, differenze di genere a parte.