Camminare: un’azione appresa con difficoltà nei primi anni di vita, destinata a divenire qualcosa di automatico, di immediato. È proprio attraverso questo movimento che l’uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circonda. Attraversare lo spazio ha rappresentato, sin dai primordi, una necessità finalizzata alla ricerca di cibo e di informazioni utili per sopravvivere, ma che – una volta soddisfatti questi bisogni – si è trasformata e ha generato un simbolismo che ha reso l’uomo capace di abitare il suo mondo.
Come racconta Francesco Careri nel suo Walkscapes, prima del neolitico, quindi prima del menhir, l’unica architettura simbolica in grado di mutare l’ambiente circostante è l’azione del camminare, un atto sia percettivo che creativo, sia di lettura che di scrittura del territorio. Un tale gesto, infatti, implica una trasformazione del luogo e dei suoi significati, pur non rappresentando la costruzione fisica di uno spazio. La sola presenza dell’uomo in un determinato ambiente, unita alle varie percezioni che egli ne riceve nell’istante in cui lo attraversa, è, di fatto, una mutazione stessa del paesaggio che, sebbene non lasci segni tangibili, va a modificare – culturalmente – lo spazio, il quale, a sua volta, diviene un vero e proprio luogo.
I menhir – dal bretone pietra lunga, in egiziano benben, la prima pietra emersa dal caos – sono degli oggetti estremamente semplici, grosse pietre prive di incisioni poste orizzontalmente sul suolo, e allo stesso tempo impregnati di storia. La loro stessa esistenza, il fatto che siano stati costruiti, rappresenta e dimostra come l’uomo abbia modificato, per la prima volta, il paesaggio. I menhir sono rotati di novanta gradi, conficcati nella terra, e questo loro essere immobili, fermi in un punto, istituisce un tempo zero che ferma quindi il tempo e lo spazio, rendendolo eterno. Può essere considerato un oggetto astratto, ma assolutamente vivente, dal quale poi si svilupperanno nell’architettura la colonna tripartita e nella scultura la stele-statua.
Ci si trova quindi ad attraversare uno spazio che acquisisce diversi significati e il percorso lasciato alle spalle diventa un’azione estetica che penetra nel territorio del caos, creando un ordine nuovo sul quale si sviluppa l’architettura degli oggetti situati. L’arte del camminare è un contenitore che racchiude in sé il menhir, la scultura, l’architettura e il paesaggio.
L’errare è il ka degli egiziani, il simbolo dell’eterna erranza, appunto, che si è evoluto come transumanza nomade, considerata archetipo di ogni percorso. Come scrive Careri, un’erranza che ha continuato a vivere nella religione attraverso la visione del percorso come rito, ma anche nelle forme letterarie attraverso l’idea del percorso come narrazione vera e propria. Nell’ultimo secolo, però, questa metafora è divenuta un puro atto estetico: un’erranza come architettura del paesaggio. Quest’ultimo, difatti, si evolve in una trasformazione simbolica e fisica dello spazio antropico.
Come conseguenza di tale prospettiva, vi sono tre momenti di passaggio importanti, nella storia dell’arte, che hanno in comune l’esperienza legata al camminare: il passaggio dal Dadaismo al Surrealismo (1921-1924), dall’Internazionale lettrista all’Internazionale situazionista (1956-1957) e, infine, dal Minimalismo alla Land Art (1966-1967).
Per tutto l’inizio del secolo scorso la pratica del camminare viene sperimentata come forma dell’anti-arte. Dada, nel 1921, organizza delle visite-escursion” in luoghi della città considerati banali: è la prima volta che nell’arte si cerca di conquistare il paesaggio urbano, piuttosto che dedicarsi ai luoghi deputati. In questo modo il Dadaismo rende la visita il giusto strumento per superare l’arte, strumento che farà da filo rosso per la comprensione delle avanguardie successive. In queste camminate parigine, i dadaisti scoprono, come scrive Careri, una componente onirica e surreale dell’errare: la deambulazione, una scrittura “automatica” nello spazio reale in grado di svelare le zone inconsce e il rimosso della città.
La deambulazione surrealista, agli inizi degli anni Cinquanta, viene, però, contestata dall’Internazionale Lettrista che, invece, inizia a definire la teoria della deriva: si tratta di una costruzione di situazioni sperimentando comportamenti ludico-creativi e ambienti unitari.
Il risultato è una città percorsa che nasce con la città banale di Dada, prosegue con la città entropica di Smithson, e ancora con la città inconscia e onirica dei surrealisti, per poi arrivare a quella ludica e nomade dei situazionisti. L’errare, proprio degli artisti, porta alla scoperta di una città liquida, un luogo dove nascono in maniera spontanea gli spazi dell’altrove, un navigare continuo che conduce alla deriva; dove lo spazio dello stare si perde nell’immenso spazio dell’andare.
Il tracciato nomade, per quanto segua delle poste o degli itinerari rituali, non ha la funzione del percorso sedentario che consiste nel “distribuire agli uomini uno spazio chiuso”, assegnando a ciascuno la propria parte, e regolandone la comunicazione tra le parti. Il tracciato nomade fa esattamente il contrario, “distribuisce gli uomini (o gli animali) in uno spazio aperto”, indefinito, non comunicante. – Gilles Deleuze e Félix Guattari