Giorgio Sommer nacque a Francoforte sul Meno la sera del 2 settembre 1834 da Giorgio e Anna Margaretha Gauff. Trascorse un’infanzia serena, resa possibile dall’agiatezza economica del padre, e appena ventenne cominciò a praticare a livello professionale l’arte della fotografia, appresa soprattutto grazie al tirocinio presso la ditta Andreas e Figli di Francoforte.
Già nel 1850, entrò in possesso della sua prima macchina fotografica, regalo del padre, dando inizio così a un periodo di dilettantismo fotografico che presto si trovò costretto a trasformare in attività professionale per esigenze economiche. Attualmente, non si conosce nulla della sua precoce attività di fotografo, sappiamo soltanto che al 1880-1890 circa risale il suo primo incarico affidatogli dalla Confederazione Elvetica: si trattava di documentare la configurazione orografica del paese in previsione dell’apertura di nuove strade ferrate.
Sommer portò avanti il proprio lavoro prima a Roma e poi a Napoli, in Strada di Chiaia numero 168 e, in seguito, in via Monte di Dio numero 4. A partire dal 1857, anno a cui lo stesso fotografo fece risalire la fondazione del proprio atelier, è segnalata, per la prima volta, la sua presenza nella Città Eterna. In realtà, egli non pensò mai che Roma potesse essere la sede definitiva della propria attività dal momento che, sin dall’inizio, fu maggiormente proiettato verso il capoluogo campano, richiamato dall’urgenza inappagabile della sua passione archeologica e da più personali interessi amorosi, considerando la prima solo come un banco di prova delle proprie capacità e come postazione ideale da cui muovere per le campagne fotografiche nel vicino Granducato di Toscana e negli altri stati preunitari dell’Italia centrosettentrionale. Roma, inoltre, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, si presentava come uno dei pochi centri floridi del mercato della fotografia italiana, non solo per il passaggio o il soggiorno di numerosi e facoltosi visitatori di varia nazionalità, ma anche per la frequentazione assidua della città da parte di artisti stranieri che, allora più di oggi, facevano capo alle accademie o agli istituti culturali delle proprie nazioni d’origine, spesso frequentandosi anche a livello personale e incontrandosi al famoso Caffè Greco.
Napoli, non meno di Roma, era allora una delle tappe privilegiate del turismo internazionale. Anzi si può dire che dopo la scoperta di Ercolano nel 1738 e quella di Pompei nel 1748, nessuna capitale europea potesse più competere con lei. Al di là dell’interesse per i nuovi scavi e per le antichità di Baia, Pozzuoli e Paestum, il turista veniva catturato dalla bellezza luminosa dei dintorni del Golfo, dalla particolare struttura urbanistica della città digradante verso il mare, la presenza “esotica” della montagna di fuoco e la gesticolante rumorosa moltitudine del suo popolo minuto. Tutti questi elementi si offrivano quasi come un condensato reale, per così dire vivente, alle categorie del Pittoresco e del Sublime del pensiero illuminista.
Gli indirizzi noti di Sommer, da quello più precoce di Strada di Chiaia 168, a quelli intermedi di via Monte di Dio ai civici 4, poi 8, per poi arrivare all’ultimo di piazza Vittoria, sede del suo atelier sino al 1914, anno della sua morte, si inserirono strategicamente in perfetta relazione fra lo sviluppo della città e gli anni della lunga attività del fotografo entro questa zona urbanistica commercialmente privilegiata. Fra le più precoci onorificenze troviamo quella attribuita a lui da Vittorio Emanuele II nel 1865 cui sono da aggiungere fuori dall’Italia le grandi medaglie meritate alle Esposizioni internazionali di Londra (1862), di Parigi (1867), di Vienna (1873) e di Norimberga (1885), dove, però, l’artista si presentò non come fotografo, ma per la parallela attività – già avviata dalla fine degli anni Settanta – di fonditore di oggetti d’arte, ossia di copie bronzee degli originali pompeiani.
Nel ristretto ambito della città di Napoli, dove Sommer abitualmente visse e lavorò, quanto mai copiose furono le inserzioni pubblicitarie che egli pubblicò nelle guide e nella stampa periodica per segnalarsi non soltanto ai turisti, ma anche alla committenza locale. Nei suoi primi anni partenopei, infatti, si dedicò anche alla ritrattistica, che, però, a causa degli impegni nelle grandi campagne paesaggistiche e di documentazione artistica, cominciò ad abbandonare già dal 1862, come possiamo ricavare da un annuncio del 25 aprile apparso sul Giornale di Napoli, in cui il fotografo avvertiva la clientela che i negativi dei ritratti fino al n. 1000 sarebbero stati distrutti al 2 di maggio.
L’attività di Sommer a Napoli può essere suddivisa in tre diversi generi: documentazione dell’opera d’arte, costume e veduta. Ogni elemento del suo repertorio offriva precise risposte alla richieste del turismo, soprattutto del viaggiatore tedesco, la cui Bildungsreise – essenzialmente mediterranea e, più spesso, napoletana – evidenziava come costanti l’interesse per il paesaggio, per l’arte, per l’antichità greco-romana e, infine, anche se in maniera subordinata e sotto la spinta del Viaggio in Italia di Goethe, per il popolo e l’elemento antropologico.
La considerazione altissima e la fama di cui il fotografo godette già in vita sono in gran parte legate al suo pionierismo. Egli, infatti, fu tra i primi fotografi a fissare in immagine il volto, le miserie e gli splendori di Napoli, così come la bellezza del suo golfo e della vicina costiera amalfitana da poco (1853) aperta al turismo internazionale dalla carrozzabile panoramica che, partendo da Vietri, arrivava fino all’antica Repubblica Marinara. Lo stile di cui Sommer si avvalse per mostrare le proprie istanze e i propri contenuti, sia emozionali che culturali, si basò, durante tutto l’arco della sua produzione fotografica, principalmente su due elementi: da una parte una forte traduzione chiaroscurale che demanda all’uso raffinatissimo e sapiente del viraggio all’oro, dai toni scuri e violetti, dall’altra a uno straordinario senso della composizione, evidente nella capacità di individuare le linee di forza di una certa scena, affidando a queste la propria visione del mondo e la propria volontà di rendere palese la distanza fra la realtà e l’immagine.
Le sue numerose fotografie, scattate durante la propria lunghissima e fortunata carriera, sono giocate su griglie compositive fisse e ricorrenti. Prevale la tendenza a scandire lo spazio attraverso la contrapposizione di linee verticali e orizzontali che esaltano al massimo grado la profondità prospettica dello spazio, dando contemporaneamente risalto al volume, alla qualità materica e a tutti i dettagli degli elementi architettonici, urbanistici e naturali delle varie vedute. Sommer, sensibile a tutte le valenze del paesaggio, sia urbano che naturale, amava ricollegare i vari monumenti, oggetto di ripresa, con lo spazio circostante e gettare occhiate sghembe e oblique, capaci di alludere alle più vicine situazioni viarie, alle scenografie urbane limitrofe e al rapporto città-natura.
Giorgio Sommer, che ha scelto di fotografare quei particolarissimi luoghi che il mondo intero considera, ancora oggi, degni di memoria per supremazia artistica e per bellezza naturale, ha saputo conservare intatta, trasfusa nella modernità di un nuovo linguaggio, anche la memoria di quei luoghi, che è andata crescendo e stratificandosi nei secoli e di generazione in generazione, alimentata dal canto dei poeti e dal lavoro degli artisti.
Comments 1