Fa male constatarlo, ma il nostro Paese ha delle serie difficoltà nel riuscire a rapportarsi in maniera sana con la diversità e con il tema dell’integrazione in generale. A dire il vero, senza mezzi termini, ci sono intere fette di popolazione che possono essere definite razziste. Le stesse che, come belve fameliche, ogni giorno vengono istigate da quelle fazioni politiche le quali, sempre senza mezzi termini, possono agilmente essere chiamate fasciste.
Una constatazione che duole perché ci si sta allontanando sempre di più da quelli che sono i nostri valori fondanti – sanciti anche in Costituzione – e perché il razzismo è una vera forma di tradimento nei confronti della nostra Storia.
La Penisola, una lingua di terra nel Mediterraneo, è sempre stata un crocevia di popoli, dunque la commistione di culture ed etnie è stata – e dovrebbe essere ancora – per essa una cifra caratteristica. Dipoi l’Italia, nelle generazioni precedenti alle nostre, ha conosciuto la miseria, la povertà assoluta e quindi, di riflesso, il fenomeno dell’emigrazione. Soprattutto nel Mezzogiorno, è raro riuscire a trovare una famiglia che non abbia avuto almeno uno zio o un parente partito per terre lontane o per il Nord alla ricerca di un destino migliore. La stessa sorte che, ci auguriamo, non venga riservata anche alle nuove generazioni.
È ben strano allora che la nostra società non riesca ad abbracciare la pluralità e che alcuni nostri concittadini paiano non provare alcuna forma di empatia verso quanti stanno raggiungendo le coste del Paese perché in fuga da guerre e disperazione. È inutile, oltre che ridicolo, poi che personaggi come Salvini, tra le altre cose, si preoccupino di fare dei distinguo tra i migranti africani di oggi e quelli italiani del passato. I primi, infatti, vengono accusati di essere tutti delinquenti allo stesso modo in cui i secondi venivano additati tutti come dei mafiosi. Solo chi non conosce la storia – o la interpreta faziosamente – può ignorare che i nostri connazionali emigrati all’estero siano stati accompagnati esattamente dalla stessa retorica ostile che viene riservata e riversata sui nuovi arrivati.
Dinanzi a tutta questa asprezza e alle brutture che in maniera sempre più feroce si stanno susseguendo quotidianamente, può essere utile, per cercare un appiglio e una boccata di umanità, allora rispondere con un’altra di quelle che dovrebbe essere tra le caratteristiche centrali, ma spesso bistrattate, del nostro Paese: la bellezza declinata nelle diverse espressioni artistiche. Proponiamo, quindi, una poesia che può aiutarci a comprendere molteplici aspetti sulla questione dell’emigrazione, sulle sofferenze e sulle difficoltà che la accompagnano. Si tratta di un componimento – La ballata dell’emigrante – scritto nel secolo scorso ma che sembra cucito su misura sulla pelle di chi fugge in mare nei giorni nostri. Una prova, questa, che gli emigranti sono tutti uguali a prescindere dai luoghi e dai tempi. Si scappa con dolore, lasciando i propri cari, e con la speranza che, però, spesso, una volta arrivati, viene calpestata dalle cattiverie e dallo sfruttamento di chi è interessato solo alle sue tasche. L’autore del brano è Antonio Ghirelli, scrittore e giornalista napoletano morto nel 2012, la cui produzione letteraria e saggistica è davvero degna di nota.
Qui il testo integrale:
Scampanella il treno
alla stazione di paese.
Una nuvola di polvere
e arriva la corriera.
Una tofa nel porto
e in terra al molo
si apre finalmente
la dogana.
Emigranti.
Cafoni, ignoranti,
analfabeti,
gente di niente.
La valigia di cartone,
provoloni e salame
mischiati nel fagotto
alla frittata.
Una parlata incerta,
un sorriso spaurito.
I parenti sul marciapiede,
vestiti di nero,
e più smarriti,
più spaventati,
più stonati
di chi se ne va.
Emigranti.
La madonna li accompagna.
Il prete piangendo
li benedice,
povero prete sporco
e cafone
come loro.
Chi teneva una vacca
chi teneva una stalla
chi teneva
quattro palmi di terra
una casa
un albero di frutta,
ora tiene un biglietto
e una lettera
per Broccolino.
Per Brusselle
Francoforte Parigi
Milano Torino
una lettera
e un biglietto.
Vi presento,
carissimo compare,
il compare Totonno,
il compare Gigino,
Pascale ‘o fetente,
Ciccio lu guardiano,
Mariano, lu figghio de zia Rosa.
Non tiene una lira
tiene solo
genio di faticare
e fame.
Emigranti, signoria.
Non bianchi come voi,
si capisce,
quasi negri.
Gente sporca
ignorante
e scostumata.
Gente incivile,
mein Herr,
insensibile
agli uccelletti
al rispetto
dei giardini
al fulgore
dei cessi tedeschi.
Gente infame, mister.
Lesta di mano,
pronta di
coltello.
Gente nostra,
commendatore,
gente di mafia,
picciotti,
orfani, vedove
sicari
di mammasantissima.
Gente feroce
che spara,
eccellenza.
Emigranti.
Lasciateli sbarcare,
lasciate che alzino
i vostri grattacieli.
Lasciate che scendano
nelle vostre miniere,
Meglio a loro
il grisù
che ai vostri
bei ragazzi
biondi
forti, educati
super-vitaminizzati.
Lasciateli
zappare il West,
lasciateli
impazzire
alla catena di montaggio
del vostro sempiterno
maggiolino.
Lasciateli venire.
Uno straccio
di paga,
un sottoscala
per dormire,
una zuppa di cavoli
per sfamare
la fabbrica dell’appetito.
Per un pugno
di dollari
per una branca
di marchi
per una lurida
manciata di lire,
sono pronti a tutto.
Lasciateli crepare
nei luridi slum
delle vostre
Babilonie.
Teneteli lontani
dai vostri lussuosi
ristoranti.
Se osano
entrare nei vostri
stadi,
tenete pronti
i mastini.
Emigranti latini,
bruna canaglia
con baffi
basette
e brillantina,
gentile
che v’insidia
le donne,
lasciatela marcire
con tutta la marmaglia
di turchi
di armeni
di portoricani.
Emigranti del sud.
Gente che vive
per modo di dire.
Che vive
per morire.