Ero così nervosa. Non pensavo che mi avrebbero concesso l’asilo in Svezia e che tutto sarebbe successo così in fretta, nel giro di pochi mesi. Loro (le autorità svedesi) mi hanno detto che erano stati violati i miei diritti. Invece di proteggermi, lo Stato mi aveva perseguitato.
Questa è la voce di María Teresa Rivera, la trentaquattrenne salvadoregna condannata a quarant’anni di carcere in seguito a un aborto spontaneo. Attualmente, la giovane donna ha ottenuto – dopo aver scontato già quattro anni in una prigione nazionale – asilo politico in Svezia, dove è stata riconosciuta la pericolosità di quella che si è rivelata una vera e propria persecuzione privata.
È tristemente nota la legge che, dal 1997, affligge le donne di El Salvador, alle quali non è permesso abortire, qualsiasi sia la motivazione – anche di carattere fisiologico – legata a tale evento. Sono molte, difatti, le persone di sesso femminile accusate di “procurato aborto” anche qualora si tratti di un avvenimento spontaneo, del parto di un feto morto o di complicanze insorte in gravidanza.
Il 17 Marzo 2017, per la prima volta, una di loro è riuscita a scappare dalla gabbia paralizzante a cui era stata costretta dalla società. Per quattro anni, María Teresa è stata privata della libertà, con il terrore – sempre presente – di non vedere riconosciute le proprie ragioni. Una volta uscita di prigione, non ha potuto in alcun modo rifarsi una vita insieme a suo figlio, dal momento che le erano precluse, in quanto pregiudicata, tutte le possibilità di assunzione.
Tutti mi bollavano come l’assassina di neonati. Nessuno mi voleva dare un lavoro.
Quando ha compreso che i pubblici ministeri avevano presentato ricorso per ribaltare la decisione della corte suprema di scarcerarla, la donna ha realizzato di non avere altra via di salvezza se non quella di fuggire in un altro Stato, pur di evitare di tornare in carcere per un “reato” mai commesso.
In Svezia, nonostante tutte le difficoltà connesse allo sradicamento e all’isolamento linguistico, Rivera ha potuto iniziare a costruirsi una nuova vita, libera dal marchio di fuoco di una società ottusa e sadica che vede nell’utero delle donne, specialmente se povere, più una condanna e un condizionamento che non un elemento corporeo.
Non siamo abituati a doverci coprire così tanto e la nuova lingua è stata per me un enorme shock culturale. Ma la cosa più importante è che mi hanno accolta bene. Gli svedesi ci hanno mostrato molta solidarietà.
La storia di María Teresa ha aperto una breccia nella vita di centinaia di donne salvadoregne, alle quali la vita è stata rovinata dall’applicazione nefasta di una legge che punisce senza nemmeno conoscere la porzione di mondo sulla quale va a operare. È importante, quindi, che le vicende di queste famiglie superino i confini internazionali e portino all’attenzione della comunità globale le difficoltà strazianti vissute da questi individui, per poter offrire opportunità di salvezza e per non lasciare che questa vicenda rimanga una meteora in un cielo buio, senza possibilità di miglioramento.
Ci siamo promesse che se fossi riuscita a lasciare El Salvador avrei parlato a loro nome. Non meritano di essere in carcere per reati che non hanno commesso. Alcune madri hanno trascorso dieci anni in prigione, lontane dai loro figli.