Dal 14 settembre 2024 al 26 gennaio 2025, il Palazzo Reale di Milano ospiterà una mostra monografica senza eguali, dedicata a uno degli artisti più noti e apprezzati a cavallo tra Ottocento e Novecento: Edvard Munch. Proprio in occasione dell’ottantesimo anniversario della sua morte, avvenuta nel gennaio 1944, Munch torna nel capoluogo lombardo dopo quarant’anni dall’ultima esposizione, omaggiato dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Arthemisia, con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e in collaborazione con il Museo MUNCH di Oslo.
Considerato il padre spirituale dell’Espressionismo tedesco (lo anticipa di un decennio), Munch non ha avuto vita facile: alcuni lutti – la perdita prematura della madre e della sorella, la tragica morte del padre – hanno segnato in maniera irreparabile la sua esistenza e la sua fragile mente. È per questo motivo che allusioni implicite o esplicite alla morte presenzieranno in ogni sua opera.
Si formò dapprima conoscendo il Postimpressionismo, Paul Gauguin, il Simbolismo dei Nabis, il linearismo dell’Art Nouveau, per poi approdare a tematiche più esistenziali sotto l’influenza di filosofi come Kierkegaard, Schopenhauer o Nietzsche. E da qui il colore che abilmente ha catturato dagli impressionisti diventa acido, violento, mera espressione dell’animo di un uomo non più padrone del suo tempo, della sua psiche. Diceva Munch: «La mia pittura è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È dunque una forma di egoismo ma spero sempre di riuscire, grazie a essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro».
Intorno al 1892 e per l’intero decennio successivo, portò avanti senza mai concluderlo un ambizioso progetto artistico che chiamò il Fregio della vita: doveva rappresentare i quattro momenti fondamentali della vita di un individuo, l’amore, il suo declino, l’angoscia e la morte e fu proprio questo progetto ad accompagnarlo nell’inesorabile tramonto del suo essere. Uomini e donne che divengono via via sempre più deformi, fino ad assomigliare a maschere, a larve (Sera sul viale Karl Johan), dipinti dai quali non si separò mai fino alla morte poiché solo la loro visione unitaria poteva in qualche modo restituirgli un “senso” della vita.
L’ampia retrospettiva, curata dalla studiosa Patricia G. Berman, comprende quindi un centinaio di opere tra dipinti, disegni e stampe, tutti provenienti dal Museo MUNCH di Oslo. Tra questi citiamo Malinconia (1900-1901), serie da cui sono state tratte cinque tele e due xilografie, facente parte del Fregio della vita e forse tra le prime opere veramente simboliste del pittore. Oppure La morte di Marat (1907), che riprende il tema della morte del rivoluzionario francese tanto caro a un ben più ricordato Jacques-Louis David, nel Settecento, molto ammirato da Munch. Stavolta, però, al centro della tela non c’è Jean-Paul Marat ma l’assassina Charlotte Corday, la quale ha i lineamenti di Tulla Larsen, sua amante.
E, ancora, Notte stellata (1922–1929), una delle varie versioni di Le ragazze sul ponte (1927), o Danza sulla spiaggia. In quest’ultimo – la versione del 1904 – due donne in abiti chiari e con i capelli al vento danzano su una spiaggia tra le onde avvolgenti del mare e il riflesso della luna (o forse del tramonto). Accanto a loro, tuttavia, si scorgono tra i rami di un albero altre tre figure umane vestite di nero e rosso. Se al primo sguardo ciò che traspare è un sentimento di libertà e gaiezza, Munch, coerente con il progetto del Fregio della vita, ci ricorda che, oltre la gioia, ad attenderci ci sono inevitabilmente il dolore e la morte.
Ma nel catalogo non può di certo mancare l’opera cardine, colei che ha reso e continua a rendere celebre – per non dire pop oramai – Edvard Munch: L’urlo. Precisamente, una delle versioni litografiche custodite a Oslo, del 1895. Fulminateci se non possiamo asserire si tratti di una tra le opere più iconiche e anche memizzate (vedi la maschera del film Scream o l’emoji della faccina spaventata) della storia dell’arte. Una Monna Lisa dei nostri tempi, per dirla con le parole del giornalista Arthur Lubow. La sua intensità, il colore aggressivo, le linee deformate e ipnotiche la rendono senza dubbio simbolo della disperazione umana, capace di cristallizzare in un’immagine tutta l’angoscia esistenziale dell’umanità contemporanea.
Camminavo lungo la strada con due amici – ci lascia scritto lo stesso autore in una pagina di diario – quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. Il pittore si copre le orecchie per non sentire, per non sentirsi, mentre tutto attorno si sgretola, esattamente come il suo animo, come ogni sua certezza. Il dramma diventa quindi esistenziale, non più riferito alla sua storia personale ma all’universo intero, accomunando uomo e natura in un unico destino.
Impossibilitati a trovarvi a Milano? Niente paura: la mostra avrà una seconda tappa a Roma, a Palazzo Bonaparte, dal 12 febbraio al 2 giugno 2025. Insomma, un’occasione da non lasciarsi sfuggire per ammirare dal vivo la potenza espressiva di un artista capace di trasporre su tela l’uomo e il suo dramma, la sua solitudine, le paure, le angosce, i turbamenti. Un artista che è stato in grado di sfidare le varie espressioni dell’arte e coniugare linee affini a quelle dell’Art Nouveau con il colore dei postimpressionisti e con le deformazioni proprie di Van Gogh. Ma, soprattutto, in grado di indagare il tormento e l’inquietudine umana realizzando opere che sanno toccare nel profondo. Che se restate fermi per bene a osservarle, potrete quasi vederle pulsare. Perché le opere di Munch, ancora oggi, sono vive.