Siamo andati in Afghanistan per cercare Osama bin Laden. Siamo rimasti in Afghanistan per salvare le donne. Abbiamo lasciato l’Afghanistan perché i talebani hanno mostrato il volto buono. È questo, più o meno, il riassunto di quella che negli Stati Uniti chiamano la guerra dei vent’anni, l’invasione iniziata all’indomani dell’11 settembre 2001 e conclusasi nell’agosto di tre anni fa con il rientro, a Kabul, di quelli che in teoria avremmo dovuto cacciare.
Il plurale non è un errore: in Afghanistan l’Occidente ci è corso tutto. Risultato? 4 milioni di profughi, 241mila morti (in prevalenza civili), 2300 miliardi di dollari spesi dagli USA, trenta, diciannove e dieci miliardi di euro investiti rispettivamente da Germania, Gran Bretagna e Italia, la maggior parte nella formazione dell’esercito locale. Con un ventesimo di quei soldi, diceva Gino Strada, l’Afghanistan oggi sarebbe una nuova Svizzera. Invece, è un Paese distrutto, tossicodipendente, eternamente alla mercé di un invasore. Anche prima delle Torri Gemelle.
L’Afghanistan si trova sulla principale rotta terrestre tra Iran, Asia Centrale e India. La sua, dunque, è una posizione strategica che, da sempre, fa gola ai signori della guerra e lo rende un Paese notoriamente difficile da governare, diviso tra le milizie che combattono soprattutto per il controllo della produzione di oppio e per la creazione di impianti per raffinare il prodotto in eroina (oltre il 90% di quella in commercio su scala mondiale viene da qui).
Già nel diciannovesimo secolo, l’espressione il grande gioco era usata per descrivere la rivalità tra i britannici e i russi per ottenere potere e influenza in Afghanistan e nelle zone limitrofe. Allo stesso tavolo, nel 1979, sedette poi l’Unione Sovietica che invase il Paese a Natale, scuotendo le coscienze d’Occidente – mentre a finanziare la lotta ai comunisti era la stessa famiglia bin Laden (di cui gli americani erano soci). Infine, nel 2001, gli USA fecero propria la partita: scoprimmo così i santuari di al-Qaeda, i taliban e le donne costrette a vivere tra ignoranza e sottomissione.
Da allora, sono trascorsi ventitré anni. Osama bin Laden è stato ucciso in Pakistan nel maggio del 2011 e la lotta agli uomini dalla barba lunga è diventata politicamente irrilevante, una vera fortuna per i signori della guerra: dal 2014, da quando cioè la maggior parte delle truppe statunitensi ha iniziato a lasciare il Paese, i talebani hanno rapidamente guadagnato terreno e nessuno se n’è accorto. Già nel febbraio 2017, il governo locale controllava appena il 52% dei distretti. Nello stesso anno si registrava il massimo storico stimato per la produzione di oppio: 9900 tonnellate, 1.4 miliardi di dollari (6.6 miliardi se si tiene conto del valore di tutte le droghe). Era solo questione di tempo, dunque, prima che si arrivasse al 2021 quando, per chi ci crede, in una settimana si concretizzava la presa di Kabul.
Dopo le Torri Gemelle, altri uomini cadevano. Uomini che si attaccavano alla carlinga di un aereo, donne che affidavano i loro piccoli ai soldati sperando di metterli in salvo. Donne e bambini che in Afghanistan costituiscono la maggioranza della popolazione sfollata, quella più esposta al rischio di sfruttamento e abuso. Eppure, si diceva, non ci saremmo dimenticati di loro. O sbaglio? I numeri raccontano altro: fino al 2021, in appena dodici anni, in Europa, le cittadine afghane adulte a cui era stato negato lo status di rifugiate erano 30mila, 21mila le bambine, 4mila le ragazze tra i 14 e i 17 anni. Il 24% di queste donne è già stato rimpatriato. Del restante 76% non è rimasto quasi nessuno a raccontare.
Quel che sappiamo è che dall’agosto 2021 i nuclei familiari con a capo una donna affrontano tassi più elevati di insicurezza alimentare e di lavoro minorile rispetto a quelli con a capo un uomo. Attualmente, nel Paese, quasi un nucleo familiare su tre, formato da donne e ragazze, si affida a strategie di sostentamento “di emergenza” (fonte Save The Children). Nel frattempo, mentre mostravano un volto più aperto – così dicevano i commentatori – già otto mesi dopo il loro ritorno, i talebani impedivano la riapertura delle scuole secondarie femminili – le nostre medie e superiori, per intenderci – perché non era stato studiato un protocollo che rispettasse i criteri imposti dalla Sharia sull’abbigliamento femminile.
Per le donne, in Afghanistan, la situazione precipita di giorno in giorno. Non possono andare all’università, praticare sport, guardarlo – come nel caso delle ultime Olimpiadi –, lavorare, uscire da sole, persino recarsi in ospedale se non accompagnate da un uomo della loro famiglia. Non ci sono più parrucchieri né saloni di bellezza. La lapidazione femminile è una pratica ammessa dalla legge.
A distanza di tre anni – denuncia Pangea, una delle pochissime onlus ancora sul territorio – possiamo dire con certezza che è in atto un vero e proprio apartheid. Le donne non esistono, non sono trattate come persone perché non possono godere dei diritti umani fondamentali. Dov’è finito l’Occidente? Dove siamo tutti?
Appena pochi giorni fa, il Ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù ha emanato una legge che sembra venire da un tempo lontano. Le donne, adesso, non possono cantare, recitare, neppure leggere ad alta voce in pubblico: la loro voce, infatti, è considerata un aspetto intimo e, come tale, deve restare privata. Le donne devono coprirsi completamente il corpo in presenza di uomini che non appartengono alla loro famiglia e coprirsi il viso per evitare tentazioni. Possono uscire di casa solo per stretta necessità e solo se accompagnate da mariti, fratelli, padri o figli. A tal proposito, i conducenti dei veicoli non possono trasportarle se non vestite adeguatamente, se non in presenza di uomini e se non in presenza di uomini della famiglia. Alle donne è vietato guardare persone del sesso opposto con cui non hanno legami di sangue o di matrimonio. E vale anche il contrario.
Al contempo, sono vietati la musica, le droghe, l’adulterio, l’omosessualità, il gioco d’azzardo, i combattimenti tra animali, la creazione o la visione di immagini di esseri viventi su un computer o un telefono cellulare, l’assenza di barba o la barba troppo corta per gli uomini, i tagli di capelli “contrari” alla Sharia. Tutti, o quasi, divieti già imposti nell’ultimo triennio e ora promulgati per legge, la prima di questo tipo da quando i talebani sono tornati al potere.
D’altronde, il Ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù nasce con lo scopo di promuovere il rispetto e l’applicazione della legge islamica nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista che poco ha a che fare con l’Islam ma molto con i regimi oppressivi. Tutto quello che è stato il gruppo talebano al governo tra il 1996 e il 2001, senza interessare troppo l’opinione pubblica, e che è ancora oggi sotto gli occhi della comunità internazionale.
Questa settimana un portavoce del Ministero ha detto che più di 13mila persone sono state arrestate per atti immorali nell’ultimo anno. Non soltanto donne, ovviamente, visto che i divieti non riguardano solo loro: le leggi obbligano passeggeri e autisti dei mezzi di trasporto a recitare le preghiere in orari prestabiliti; gli uomini non possono portare pantaloni sopra il ginocchio e devono sempre curare la barba. Sono le donne, però, a subire il trattamento peggiore, ancora una volta un tentativo di invisibilizzazione che dapprima le vuole proprietà di un uomo, poi prive di istruzione – quindi di qualsiasi strumento di indipendenza culturale ed economica – infine silenziose. Senza volto, senza corpo, senza voce.
Secondo una stima, le donne afghane costrette a sposarsi in maniera forzata e spesso precoce sono il 60-80%. In media, ognuna di loro ha sei figli. Le bambine obbligate al matrimonio hanno maggiori probabilità di subire violenza sessuale e violenza fisica tra i 10 e i 14 anni di età. Forse è per questo che il 95% dei casi di suicidio riguarda proprio loro, le donne. Eppure, mentre riprendevano il potere in Afghanistan, i talebani dicevano che ne avrebbero garantito il rispetto dei diritti. L’Occidente si fidava. L’Occidente se ne andava. L’Occidente prometteva di monitorare. Poi se n’è dimenticato.
E dimentica, dimentica, tutto è tornato com’era. La condizione delle donne, i traffici mai alterati di droga – grazie a essa in vent’anni di assedio i talebani hanno guadagnato oltre 120 miliardi – e armi – la seconda fonte di reddito dei talebani è il contribuente americano che invia miliardi di armi e forniture all’esercito afghano che poi finiscono ufficiosamente nelle mani dei terroristi che, a loro volta, finanziano lo Zio Sam –, il sostegno cinese e persino il tacito riconoscimento internazionale.
Stati Uniti e alleati hanno sempre saputo che quella afghana sarebbe stata una partita persa, così l’hanno giocata finché hanno potuto, finché gli interessi non sono cambiati, finché nuovi progetti e nuove guerre non sono parse, forse, più giustificabili. In fondo, nessuno ha mai veramente voluto combattere i talebani e gli accordi di Doha (firmati da Trump, ratificati da Biden, rivendicati in queste ore da Kamala Harris) ne sono la più schiacciante prova: non una ritirata, bensì una sorta di alleanza. Il permesso a ridurre un Paese alla fame, a cancellare le donne, a dimenticarsi dell’Afghanistan. Fino al prossimo attentato utile, a una nuova guerra umanitaria, fino a Kabul liberata.