Nella Striscia di Gaza, un bambino di dieci mesi è morto di poliomelite. È morto perché nelle ultime settimane, nelle acque reflue di Khan Younis e Deir al-Balah, sono state rilevate tracce di un virus che nell’area non si vedeva da almeno venticinque anni. È morto perché il grido che le organizzazioni umanitarie stanno lanciando da 317 giorni non lo ascolta nessuno. Figuriamoci se lo fa Israele.
L’ONU ha chiesto una pausa di sette giorni per lanciare una massiccia campagna di vaccinazione destinata a circa 640mila bambini di età inferiore ai dieci anni. Credere che Netanyahu possa accettare mentre, indifferente, continua a bombardare, invadere, annientare, è pura illusione o necessario masochismo.
La poliomelite è una malattia che nei bambini può provocare paralisi permanenti o la morte, nei casi più gravi. La diffusione avviene solitamente attraverso l’acqua contaminata. La sua presenza negli scarichi della Striscia – spesso poco lontano dagli accampamenti dove decine di migliaia di palestinesi cercano riparo dallo scorso ottobre – è, dunque, più di un campanello d’allarme.
Per ora, ad annunciare la morte del bambino è stato il Ministero della Salute di Gaza ma, sebbene l’OMS non abbia ancora confermato le cause del decesso, tre casi riguardanti minori erano già stati segnalati compatibili con la malattia dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
«Siamo chiari: il vaccino definitivo contro la poliomielite è la pace e un immediato cessate il fuoco umanitario. […] In ogni caso, una pausa dalla poliomielite è d’obbligo» ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Entro la fine di agosto, dunque, 1,6 milioni di dosi di vaccino dovrebbero arrivare nell’area, sempre che Israele lo permetterà. Doverlo precisare non è una provocazione, ma un’amara presa di coscienza.
Soltanto poche settimane fa, il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha dichiarato che il blocco degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza potrebbe essere giustificato e morale anche se ciò dovesse causare, nei fatti, un genocidio: «Stiamo portando aiuti perché non c’è scelta», mica perché è normale. «Nessuno ci permetterà di far morire di fame 2 milioni di civili, anche se ciò potrebbe essere giustificato e morale finché i nostri ostaggi non verranno restituiti». Parole che solo a trascriverle fanno tremare i polsi. Parole che rimandano a quelle di Daniella Weiss, la leader dei coloni – sionista, attivista, maestra, si definisce lei – che ha sempre parlato di un solo obiettivo: dedicare «tutta la nostra vita per rendere Gaza ebrea, tutta Gaza». Parole che Netanyahu ha riproposto persino dal pulpito della democrazia americana: «Israele non dovrà mai più essere una promessa vuota».
Il 7 ottobre è la scusa, il genocidio è la causa e il fine. Chi scrive lo ha ribadito spesso e non smetterà di farlo. A chiunque queste parole suonino come antisemite, dico di guardare le immagini di ogni notte e di ogni giorno degli ultimi dieci mesi, gli ultimi di un massacro che è antico e non consequenziale, che non è giustizia e non è vendetta: è odio, persecuzione, sterminio. Lo ha confermato ancora Smotrich, che vive in uno dei tantissimi insediamenti illegali in Cisgiordania: l’attacco del 7 ottobre – ha detto – avrebbe potuto essere evitato se agli israeliani fosse stato permesso di stabilire gli insediamenti a Gaza. Se l’invasione fosse stata autorizzata, insomma, e, con essa, la cancellazione della Palestina, lo Stato che non esiste. La cancellazione di un popolo, il popolo che muore pure se non c’è.
Al momento, i dati ufficiali parlano di 40mila morti e 90mila feriti. The Lancet propone una stima diversa. Se già l’organizzazione non governativa Airwars ha costatato che non tutti i nomi delle vittime sono inclusi nell’elenco del Ministero della Salute di Gaza, la nota rivista medica inglese spinge lo sguardo ancora oltre:
Anche se il conflitto terminasse immediatamente, nei prossimi mesi e anni continuerebbero a verificarsi molte morti indirette per cause quali malattie riproduttive, trasmissibili e non trasmissibili. Si prevede che il numero totale di morti sarà elevato, data l’intensità di questo conflitto; la distruzione delle infrastrutture sanitarie; la grave carenza di cibo, acqua e riparo; l’incapacità della popolazione di fuggire in luoghi sicuri; e la perdita di finanziamenti per l’UNRWA, una delle pochissime organizzazioni umanitarie ancora attive nella Striscia di Gaza.
Nei conflitti recenti, spiega The Lancet, queste morti indirette vanno da tre a quindici volte il numero delle vittime dirette. In un rapporto di quattro a uno, applicando una stima prudente dunque, non è improbabile ipotizzare che a morire possano essere fino a 186mila e più palestinesi, il 7,9% della popolazione. Anche l’ONU – di certo non un nemico di Israele – sostiene che le persone sepolte sotto le macerie sono almeno 10mila: ciò significa che il numero attuale di morti sarebbe pari a 50mila. Un’enormità.
Nell’incontro del mese scorso, Donald Trump ha “consigliato” al Primo Ministro israeliano di «ottenere rapidamente la vittoria» perché «le uccisioni a Gaza devono finire». Ha sottolineato, però, che Netanyahu «sa quello che sta facendo. […] Darò a Israele il sostegno di cui ha bisogno per vincere, ma voglio che vinca velocemente». Che cosa intende il candidato repubblicano alla Casa Bianca? Che cosa intende quando parla di “ottenere rapidamente la vittoria” e di uccisioni che “devono finire”? Allude a uno sterminio che di questo passo ci sarà?
Mentre scrivo, i negoziati tra Israele e Hamas sono fermi al solito stallo. Non sono fermi, però, i bombardamenti né l’avanzata israeliana sui fronti di Gaza, Libano e Cisgiordania. Non è fermo nemmeno Netanyahu che, mentre i mediatori sono al lavoro, autorizza nuovi insediamenti illegali su un sito patrimonio dell’UNESCO. Non è ferma la marcia ebrea nella Spianata delle Moschee, un affronto che ha poco di religioso e molto di offensivo. Non è ferma l’autocensura a cui diversi quotidiani israeliani si sottopongono per non subire ritorsioni né la continua minaccia di superiorità. Non è fermo il sostegno internazionale a Israele né l’oscuramento, nel Paese, di Al-Jazeera.
Non si ferma il dolore di un padre che piange i suoi due figli morti mentre lui ne registrava la nascita all’anagrafe. È un dolore che si rinnova per quarantamila, cinquantamila o chissà quanti altri pianti, quante altre vittime, quante altre malattie. Un abisso dal quale non si può risalire né dimenticare. Di poliomelite o bombe, di imperturbabilità o odio, sembra che non faccia più differenza. Basta che si muoia, basta che Gaza non ci sia più.