Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre Istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati: il tweet di Giorgia Meloni, pubblicato dopo l’approvazione al Senato del disegno di legge Casellati avvenuta il mese scorso con 109 voti favorevoli, ci offre l’opportunità di parlare di una riforma costituzionale di cui si dibatte da tempo e che nasce proprio da quei giochi di palazzo a cui promette di mettere fine.
La principale novità – tra altre disposizioni come l’abolizione dei senatori a vita, eccetto per gli ex Presidenti della Repubblica – è quella del cosiddetto premierato, ossia dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte dei cittadini. L’articolo 5 del disegno di legge 935 modifica l’articolo 92 della Costituzione: per la prima volta, infatti, si prevede la nomina di un parlamentare come Capo di Governo contestualmente alle elezioni di Camera e Senato. Tutto tace sulle modalità: se la stabilità è il fine promesso, nulla si dispone su come ottenerla – a partire dalla legge elettorale su cui sarà difficile trovare un accordo – mentre vengono attentamente disciplinati i meccanismi di sfiducia e instabilità.
Vengono infatti riconosciute al Premier eletto due “possibilità” per ottenere la fiducia dalle Camere, incentivando fin da subito giochi politici che hanno poco di limpido, e ancora, nel caso di dimissioni, il Presidente del Consiglio dimissionario può ottenere un nuovo incarico dal Presidente della Repubblica, anche cambiando maggioranza. Si prevede poi che, nel caso di morte, decadenza o impedimento permanente del Premier eletto, non si vada a nuove elezioni ma l’incarico possa essere affidato a un parlamentare collegato a quest’ultimo. E la volontà popolare? Nulla di cui stupirsi se si pensa che la stessa riforma è frutto di un palese accordo interno alla coalizione di destra, in cui ciascuno ha avuto il proprio premio da portarsi a casa.
Il percorso di approvazione appare ancora molto lungo: in base all’articolo 138 della Costituzione, le leggi costituzionali e di revisione costituzionale sono approvate da ciascuna delle due Camere con due deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e devono raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti – eletti, anche se non presenti – nella seconda votazione. Nelle prime due consultazioni è possibile apportare modifiche al disegno di legge e il ddl approvato dopo mesi dal Senato è effettivamente frutto di molte modifiche su punti che hanno destato non poche polemiche, anche tra i componenti della stessa coalizione. Primo tra tutti, il premio di maggioranza con cui ottenere la così sperata stabilità di governo.
Nella sua versione originaria, la riforma, all’articolo 3, pur rimandando a una successiva legge ordinaria per la definizione del sistema elettorale applicabile, ne fissava già alcuni elementi, tra cui un premio di maggioranza del 55% in ciascuna delle Camere per la coalizione del Premier eletto. Un vero attentato alla democrazia e alla rappresentatività delle minoranze, se si considera che non veniva neppure fissata la percentuale di voti da raggiungere, quindi sarebbe potuto accadere che anche con una manciata di preferenze in più, la coalizione eletta si sarebbe ritrovata ad avere il controllo di entrambe le Camere.
Il testo approvato dal Senato prevede – senza fissarne la percentuale – un premio che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche. Un approccio decisamente più cauto che crediamo però che sia dovuto più al timore di un eventuale dichiarazione di incostituzionalità della Corte Costituzionale, come del resto già accaduto in passato per tentativi simili, che a una preoccupazione per la tenuta della democrazia da parte dei promotori della legge,
Le sentenze delle Corte Costituzionale hanno riguardato sia il Porcellum che l’Italicum: nel primo caso perché si introduceva una sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa (il premio previsto per la lista eletta era di 340 seggi alla Camera e del 55% dei seggi al Senato), nel secondo perché nonostante fosse previsto un premio di maggioranza del 55% per chi avesse ottenuto almeno il 40% dei voti, qualora nessuno avesse tenuto questa percentuale si stabiliva un secondo turno di votazioni e il medesimo premio di maggioranza per la lista eletta, prescindendo dalla percentuale ottenuta. In entrambi i casi si segnalava quindi una distorsione della volontà popolare: pur dovendo garantire la governabilità, non si possono tradire in maniera così palese i voti espressi dal popolo.
I promotori hanno dichiarato che il dibattito sulla legge elettorale – che si prefigura non facile – inizierà una volta che il testo definitivo sarà approvato da entrambe le Camere. L’applicabilità effettiva della riforma dipende infatti dal sistema elettorale scelto, rimanendo l’Italia una Repubblica Parlamentare; diversamente tutto l’impianto istituzionale ipotizzato non sortirebbe alcun effetto se non quello di una maggiore confusione.
Lo stravolgimento dell’assetto costituzionale è enorme ed è per tale motivo che in questi casi la Costituzione stessa prevede meccanismi lunghi di approvazione a tutela dei principi sanciti dai padri costituenti: se nella seconda votazione non si otterranno i due terzi dei voti di ciascuna Camera, potrà essere formulata richiesta di referendum abrogativo da un quinto dei membri di una Camera, da cinque Consigli Regionali o cinquecentomila elettori. Molte volte in passato, simili tentativi di riforma si sono rivelati lunghissimi e infruttuosi.
Come già abbiamo avuto modo di dire all’inizio di questo dibattito, a pagare le conseguenze di questa riforma sono cittadini già poco rappresentati dalla istituzioni che vedrebbero assottigliarsi ancor di più i meccanismi di garanzia previsti a loro tutela. A cominciare dal premio di maggioranza allo svuotamento di poteri del Presidente della Repubblica – che non farebbe altro che confermare il risultato delle elezioni nominando il Premier –, dalla commistione che si creerebbe tra potere legislativo ed esecutivo, fino ad arrivare ai meccanismi pensati per rimanere in carica il più a lungo possibile, questi non ci sembrano affatto un rafforzamento delle istituzioni e della democrazia, bensì il rafforzamento di pochi e delle proprie decisioni, che diventano così sempre più vincolanti per moltissimi.
Il clamore per questa riforma è stato molto e soprattutto gli addetti ai lavori si sono mostrati parecchio preoccupati. Articolo 21 ha lanciato un appello a cui hanno aderito non solo le opposizioni, ma numerose associazioni e parti sociali che percepiscono la gravità delle conseguenze. È innegabile che ciò che viene promesso ai cittadini è per loro allettante: con l’elezione diretta del Premier avrebbero la percezione di decidere davvero, di essere messi al centro, in un contesto in cui è sempre più diffusa l’idea di essere lontani dalle istituzioni, e che qualcuno decida sempre al posto nostro. Eppure, non si tratta altro che di una percezione su cui la maggioranza sta giocando: il premierato non rafforza né la democrazia né le istituzioni e potrebbe essere un punto di non ritorno.