Sebbeto di Mimmo Grasso (Colonnese Editore, 2024) è un poema urbano in cui l’autore cammina da Napoli a “Napoli” attraverso Napoli. Un’etimologia fa derivare l’idronimo dal greco Sepheitos, irruento, e tale è la scrittura di Grasso, che sente dentro di sé questo fiume sepolto come la coscienza sporca e le virtù di Napoli tra le quali emerge l’icona di Federico II che diede all’Europa il senso dello Stato.
L’autore, che si dichiara “greculo”, si accorge di vivere in una polis senza politèia dialogando con i suoi amici “cultissimi” e, nel contempo, rivolgendosi al popolo e alle sue liturgie come un fujente o un griot. Nell’intensa prefazione, Nino Daniele, discutendo sulla VII lettera di Platone e sulla Genealogia dell’umano di Aldo Masullo, ci parla di Mimmo Grasso come di un poeta che aspettavamo da molti anni per la sua oralitura (oralità e scrittura). Seguiamo da tempo questo autore e ne conosciamo le tecniche compositive. Sebbeto è un testo molto musicale: inizia con lo spartito di una villanella, musicata da Carlo Faiello, e, in varie anse e gore, si abbandona al canto. La luna (spesso “a-luna”) che spunta a Marechiaro ne è il refrain, ma questa luna è sempre diversa, secondo le situazioni in cui appare: ora è una parola d’ordine, ora è un modo di dire, ora è pura retorica, ora, sorgendo negli specchi, è “mannara”.
Il testo Inizia con l’italiano per poi accogliere la “lingua degli spiriti”, il napoletano, per conchiudersi di nuovo con l’italiano sentito sempre con la cravatta ed un nodo alla gola. Gli spiriti sono, tuttavia, fisici, hanno sangue e sudore, sono del tutto corporali. Ne sono esempio il Cristo Velato che dice e non dice: napoletanamente ostenta il corpo, o i versi finali del poema in cui, riprendendo il Caravaggio de Le sette opere di misericordia corporale, Partenope allatta la sua ombra con ginocchia spezzate. Ombra che costituisce un ciclo nel poema diventando lo spirito Santo della città. La lingua affectuum viene resa con un nuovo canone grafico, semplificato e, come in una celebre lettera, senza nulla a pretendere.
L’ispirazione non procede per punture esistenziali o asme liriche, ma è sospinta da mantici di forgia impegnandosi su problematiche cognitive e filosofiche mai affrontate nella storia del dialetto partenopeo. Dialetto – dice il poeta – e non lingua […] una lingua per essere tale deve essere in grado di esprimere concetti scientifici, filosofici, giuridici, amministrativi […] Nessun dialetto è in grado di farlo.
È evidente che per entrare nei meandri del testo occorrono strumenti ermeneutici adeguati in quanto Sebbeto si declina su molteplici aspetti. È, innanzitutto, un viaggio onirico, un sonno-rem. Il poeta ha familiarità col mondo psicoanalitico junghiano, che lo ha definito “poeta grande e visionario” (A. Vitolo). Immaginazione e verbalizzazione sono commentate nella sezione Opificio in cui viene esposto il percome e perché di Sebbeto.
Il viaggio dura un solo giorno, come l’Ulisse di Joyce, ma si tratta, beninteso, di un tempo psichico, un illud tempus, e si conclude nella Crypta Neapolitana il 21 giugno, solstizio d’estate. Lì il poeta dialoga con i suoi alter ego (o ventriloqui) Leopardi e Virgilio, davanti alle loro tombe vuote. Terribili le sentenze di Leopardi (Se il Padreterno ha creato il primo uomo con lo sputo/sputagli in faccia tu, dà la pariglia) e gli oracoli di un Virgilio gnostico (Napoli è questo sepolcro senza morto, il tuo, lamento di prefica pagata per non piangere più), o, ancora, il passo dove si deduce che Dio, onnisciente, decide di crocifiggersi per conoscere la morte.
Sebbeto, dunque, ha molti Sebbeto, affluenti e defluenti, si auto-moltiplica. Infatti, se si scelgono alcune immagini-guida, il lettore si trova in un mulinello e in varie matrici di senso. Ad esempio, nella villanella iniziale si parla di cardellini che, subito dopo, sono quelli accecati per farli cantare meglio. Questa metafora ricorre spesso (ovviamente sotto la luna di Marechiaro) creando un tramaglio, fino a quella conclusiva che rappresenta la sorgente del fiume: l’incontro tra due ciechi, Edipo e Tiresia. Molti i simboli evocati, che a loro volta generano meta-immagini. Fra loro nitrisce, furente, irruento, quello più ancestrale, il cavallo di bronzo dei terremoti.
Contributo a cura di Antonio Sgambati