Nel momento in cui scrivo piove a dirotto. Probabilmente la maggior parte delle persone, come me, è a casa, al riparo da questa incerta primavera che fatica ad arrivare, sul divano, insieme ai propri cari, magari lamentandosi di quanto questo brutto tempo non ci permetta di uscire o ci metta di malumore. Intanto, non posso fare a meno di pensare a chi sotto questa pioggia battente, in quelle strade bagnate, ci passa le giornate, e anche le notti. Per queste persone i portici sotto cui trovano riparo diventano spesso il luogo in cui procurarsi del cibo, chiedere aiuto, provare a incrociare lo sguardo altrui, dormire, mangiare, vivere.
Stando a quanto diffuso da ISTAT e fio.PSD ETS (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora Ente del Terzo Settore), le persone senza dimora in Italia sono quasi 100mila. A livello internazionale, l’Osservatorio Europeo sulla Homelessness ha elaborato la cosiddetta classificazione ETHOS (European Typology on Homelessness and Housing Exclusion): chi non può godere di una piena abitabilità perché non ha uno spazio in cui vivere, non può coltivare in quello spazio un’area cosiddetta sociale – mantenendo relazioni soddisfacenti e riservate – e non ha un titolo giuridico per goderne pienamente, vive un disagio abitativo. Le condizioni di chi vive un’esclusione abitativa sono però molteplici e la classificazione ETHOS permette di individuare le persone senza tetto, le persone prive di casa, chi vive in condizione di insicurezza abitativa, e chi vive in condizioni abitative inadeguate. Dunque, parlare di senzatetto è riduttivo poiché di solito gli individui che vivono un problema abitativo subiscono un’enormità di altri problemi come condizioni di povertà, mancanza di cura e isolamento.
I dati in nostro possesso non sono adeguati a un fenomeno così mutevole: basti pensare che in meno di dieci anni i numeri presentati da ISTAT sembrano essere raddoppiati. Ma il limite non è solo nella tempestività della raccolta, bensì soprattutto nel fatto che attualmente la rilevazione si basa sull’iscrizione anagrafica, tracciando una differenza tra chi è senza fissa dimora (e ha un domicilio nel Comune in cui vive abitualmente seppur non in un luogo in cui rimane così a lungo da potervi registrare la residenza) e chi è senzatetto e si serve della cosiddetta residenza fittizia. Si tratta dell’indirizzo messo a disposizione dagli enti comunali per permettere a chi non ha un tetto di avere un indirizzo a cui poter ricevere comunicazioni e in generale usufruire di servizi spesso ancorati a un luogo abitativo.
Nel tentativo di superare questi limiti, che contribuiscono a rendere un fenomeno già complesso quasi incomprensibile, l’Assessorato alle Politiche Sociali e alla Salute di Roma Capitale con l’Istituto Nazionale di Statistica ha organizzato una rilevazione delle persone senza dimora direttamente nelle strade, chiedendo il supporto di molteplici enti del terzo settore tra cui fio.PSD e binario95, un polo sociale di accoglienza e supporto per le persone senza dimora, oltre che della comunità cittadina, chiamata a iscriversi nei gruppi di volontari impegnati nella cosiddetta Notte della solidarietà del 20 aprile scorso.
Il fine non è solo quello di “contare” le persone che vivono in strada, ricostruendo così un dato più realistico di quello finora a disposizione, ma anche di intervistarle, conoscere le loro storie, le molteplici situazioni che le hanno condotte in una simile condizione e i loro bisogni, per offrire risposte che non siano solo quantitative e che possano corrispondere a necessità diversificate.
Una rilevazione simile è una vera sperimentazione poiché qualche mese prima era già stata condotta in misura ridotta solo in un quartiere della città e Roma potrebbe diventare il trampolino di lancio per ripetere l’esperienza in altre realtà italiane, per cominciare a conoscere l’utenza a cui i servizi sociali dovrebbero, tra gli altri, rivolgersi.
Quando ho deciso di iscrivermi ero molto timorosa. Come mi sarei comportata? Ma soprattutto, che diritto avevo io di fare domande? Di sciorinare un questionario che indaga nella vita di chi probabilmente non ha nessuna intenzione di ascoltare? Di chi, probabilmente, ha passato un’intera vita a non essere ascoltato? Ora, a distanza ormai di un mese, i ricordi sono ancora nitidi.
Mentre io e la mia squadra di rilevazione camminiamo, notiamo sul ciglio della strada, in un prato di erba incolta, un uomo che sta preparando un giaciglio con delle coperte. Dopo, avvicinandoci, scopriremo che ha con sé alcune valigie che tiene le une sopra le altre, a mo’ di panchina, e al lato si serve di teli impermeabili per coprirsi dalle intemperie. Lo notiamo e, mentre siamo ancora a un centinaio di metri, lui attraversa la strada, nella nostra direzione, e si ferma a una fontanella dell’acqua pubblica, dove si lava mani e viso, come potrebbe fare chiunque prima di andare a dormire. La naturalezza dei suoi gesti, la spontaneità con cui si lava in strada, mi stupisce. Ma in effetti non c’è nulla di stupefacente in quei gesti che sono ripetuti così naturalmente perché rappresentano la sua quotidianità, esattamente come quelli che tutti noi ripetiamo meccanicamente prima di metterci a letto. Anche lui ci nota, e mentre si lava ci osserva con circospezione, nel frattempo noi armeggiamo malamente con i nostri strumenti elettronici di rilevazione, e ci prepariamo ad avvicinarci, in due o tre soltanto, preoccupandoci della tempestività ma anche della cautela dei nostri comportamenti. I suoi sono occhi diffidenti e assomigliano in qualcosa a tutti quelli di coloro che vivono in strada: sono preoccupati perché temono che qualcuno potrebbe dire loro che lì non possono starci, che arriveranno forse le forze dell’ordine, che faranno sgomberare il suo piccolo giaciglio. Quel giaciglio che probabilmente a tante persone suscita un desiderio di non vedere, di celare, come se i problemi potessero essere nascosti sotto i nostri ricchi tappeti. Dai suoi occhi trapela però anche altro, sembra voglia di comprensione, o speranza.
L’uomo non scorge i nostri movimenti, e così intanto torna dall’altra parte della strada, si infila in un telo di plastica per coprirsi dal freddo, e si prepara per andare a dormire. Attraversiamo anche noi, mantenendo prima la distanza necessaria a intuire la sua disponibilità a farsi avvicinare. Ci sentiamo di valicare la sua privacy. Ma lui, probabilmente non aspetta altro, fa capolino dal telo, sembra farci un cenno.
Ci avviciniamo, “sappiamo che sta andando a dormire ma vorremmo farle qualche domanda”, lui esce dal telo da cui faceva capolino e ci viene subito incontro. Viene dalla Lettonia, dice, ha passato gli ultimi dieci anni a fare la spola tra Italia e Francia vivendo in strada, portandosi dietro la sua vita in quelle valigie rigonfie che ora ammassa sul marciapiede con tanta cura. Ce le indica, gli chiediamo perché non va in uno dei dormitori della città. Non siamo certi che capisca la domanda, fa spallucce e una piccola smorfia, “perché c’è troppa gente?” gli suggerisce una volontaria, e lui annuisce con forza.
Nei minuti in cui lo intervistiamo rimane sempre attento, risponde con cura, ogni tanto scrolla le spalle, e io sono quasi imbarazzata quando gli poniamo delle domande a cui non sa dare risposte. Eppure lui ha una dignità che mi spiazza, non c’è abbandono né pietà nelle sue parole o nelle sue espressioni, e noi gli siamo grati di aver condiviso la sua esperienza.
Nei prossimi mesi sarà possibile conoscere gli esiti della rilevazione e le valutazioni in merito. Quello che è certo è che bisogna abbandonare l’idea che chi vive in strada abbia bisogno solo di un’assistenza materiale: la soluzione può passare soltanto attraverso una presa in carico complessiva, che restituisca l’autonomia necessaria ad affrontare pienamente la propria vita, in uno Stato sociale che è realmente ciò che si professa.
Le persone coinvolte sono state moltissime, e questo fa ben sperare in una società che sembra essere sempre più alla deriva, chiusa ermeticamente nei propri valori di egocentrismo e solitudine. Tuttavia, lasciare al volontariato un’impresa che dovrebbe rivestire un carattere centrale dal punto di vista istituzionale è espressione delle risorse assegnate dal nostro Paese a queste priorità: a chi interessano i poveri?