Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. – Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
Lo scorso 22 aprile, tredici agenti della polizia penitenziaria del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano sono stati arrestati. I reati contestati sono maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, anche mediante omissione, aggravato dall’abuso di potere del pubblico ufficiale nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di falso ideologico e infine una tentata violenza sessuale a opera di un agente nei confronti di un detenuto. I fatti risalgono al 2022 e le violenze sono state reiterate nel tempo. Tredici agenti sono stati arrestati, otto sospesi dal servizio, venticinque indagati.
Il peso e la gravità opprimente e inconsolabile delle parole sopra riportate schiacciano chiunque si accinga a leggerle. Scrivendo, mi lascerò schiacciare da questo peso, perché non saprei, non vorrei e non potrei fare altrimenti. Vorrei poter essere arrabbiata, e trasmettere rabbia, ma la rabbia per definizione è un’irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza, o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e parole incontrollate e scomposte. Invece sono immobile, sgomenta, incredula. Sono addolorata.
Il dolore è una sofferenza morale, etica, spirituale. Le atrocità consumate al Beccaria, in un istituto penitenziario per minori, portano al macero sogni, speranze, idee. Sono insostenibilmente addolorata. E dovrebbe esserlo un’Italia intera. Dovrebbe provare il dolore di chi magari oggi è a lavoro, o a casa, sdraiato fra i propri agi e privilegi e domani potrebbe trovarsi, da colpevole o da innocente in un carcere, sotto la tutela di uno Stato che attualmente dimostra di aggredire, violentare, stuprare i propri detenuti, la propria parte fragile.
Venticinque agenti di polizia penitenziaria, circa la metà dell’organico dell’istituto, hanno reiteratamente scelto di abusare del proprio potere. Hanno scelto di ostentare sporco, lurido potere rinunciando a essere e dare possibilità. Pur rappresentandolo, hanno scelto di diventare la negazione di ogni Stato possibile.
La domanda che viene naturale è: quanto si sono discostati dall’agire dello Stato stesso? Perché nessuno, pubblicamente e privatamente, si è scusato con tutti i detenuti vittime di chi avrebbe dovuto tutelarli? Il nostro Stato non guarda più in faccia a nessuno, sputa senza ritegno con la forza, con la violenza, con la ferocia, con l’omertà. Dov’era il resto del personale del carcere stesso mentre in luoghi sprovvisti di controllo e telecamere si consumavano queste atrocità?
Un minore in carcere è colpa di uno Stato incapace di offrirgli la possibilità di essere un minore, sopperendo alle carenze e ai disagi delle condizioni familiari e ambientali già critiche. Il carcere deve offrire un’alternativa, un nuovo punto di vista, un sorriso in mezzo al pianto della violenza. Se tra le sue mura i ragazzi trovano la violenza che hanno incontrato già fuori, cambia solo il nome degli aguzzini.
Se uno Stato non riesce a rispondere agli schiaffi con le carezze, se non riesce ad andare al prologo e non all’epilogo di minorenni detenuti, vuol dire che non può ritenersi nemmeno lontanamente prossimo alla civiltà. Uno Stato che predilige lo scontro all’incontro non fa che alimentare la degenerazione dello scontro stesso.
La violenza spaventa e immobilizza. Si potrebbe obiettare che i detenuti hanno già familiarità con la violenza. L’hanno praticata. E nessuno si chiede quanto l’abbiano subita per praticarla? Quando il dentro è diventato estraneo al fuori? E, soprattutto, perché? Fermiamoci un istante. Solo un istante. Immaginiamo cosa voglia dire subire violenze reiterate nel luogo che dovrebbe rappresentare tutela e riabilitazione. Quando questi ragazzi potranno mai riacquistare fiducia nello Stato? Quando lo Stato si preoccuperà realmente di essere Stato?
Nel suo essere comunità, uno Stato dovrebbe e potrebbe aiutare a credere nel valore di una squadra, non nell’onnipotenza di un branco. Branco e squadra sono diametralmente opposti. Acqua e sapone non lavano via tutto. Pensiamo ogni giorno che abbiamo il privilegio di poterci detergere. Pensiamoci, che qualcuno si è dovuto lavare per lasciar scivolare sangue e lividi, in un luogo che dovrebbe riabilitare e tutelare. E no, né il sangue né i lividi scivolano mai. Non scivolano dalle anime delle vittime e non scivolano dalle coscienze di chi le ha provocate.
Danilo Dolci, in una poesia limpida, trasparente, ha scritto che ciascuno cresce solo se sognato. Lo Stato attualmente mostra di non sognare nulla più per chi cresce. Non è strano che un Paese che semina morte voglia far generare la vita?
Questo articolo potrebbe sembrare sconnesso e frammentato, e in effetti lo è. Ma è il dolore a essere complesso e vorticoso. E provare ad addentrarsi in una situazione vergognosamente gravissima, per quanto necessario, è difficile. Che ognuno possa pensare e ripensare, perdendo il sonno, che i reclusi di un carcere sono stati ripetutamente pestati, maltrattati, addirittura violentati in casa dello Stato. Che ognuno possa sentire il bruciore, il dolore lancinante, la frustrazione inaccettabile di chi nemmeno può parlare, perché è solo un detenuto.