7.4 miliardi di euro fino al 2027: è questa la cifra che Giorgia Meloni e la delegazione europea capitanata da Ursula von der Leyen hanno promesso ad al-Sisi dopo il vertice in Egitto. Lo hanno fatto ieri, alla vigilia della seconda udienza del processo per Giulio Regeni, una casualità che in politica non è mai del tutto casuale.
Si tratta, nello specifico, di un memorandum che prevede il pronto stanziamento di un miliardo di euro per risanare le casse dello Stato africano, poi di altri sei da concretizzarsi in aiuti, prestiti e sovvenzioni da qui ai prossimi tre anni. Un accordo che porterà le relazioni già forti tra le parti a un vero e proprio partenariato globale e strategico. L’obiettivo dichiarato è accompagnare le riforme economiche e sociali d’Egitto, contribuire a mitigare l’impatto delle crisi in corso nel continente e in Medio Oriente e, ovviamente, sostenere il rafforzamento delle frontiere per fronteggiare l’emergenza migratoria che emergenza non è. Un film già proiettato sugli stessi schermi.
Ricorderete, infatti, il recente accordo tra Bruxelles e Tunisi che ha visto Saïed, Meloni, von der Leyen e Rutte sorridere a un memorandum d’intesa – più volte cercato – al fine di un maggiore controllo delle frontiere in cambio di un importante (ma non quantificato) sostegno economico. Anche in quel caso, l’Unione Europea si è impegnata a fornire risorse per migliorare il sistema di ricerca e soccorso in mare, di pattugliamento delle acque territoriali e il controllo delle frontiere nordafricane; mentre Tunisi, a sua volta, ha ufficializzato il proprio impegno a favorire il rimpatrio dei suoi cittadini arrivati illegalmente nel continente, pur sottolineando di non voler essere un Paese in cui risiedano gli irregolari. Qualcosa di simile succederà ora in Egitto, “solo” con molti più soldi. “Solo” con molti più morti. Aiutiamoli a casa loro è il leimotiv che ancora risuona.
Ma in cosa consistono questi accordi se non nell’ennesimo fallimento di una volontà comunitaria che, incapace di agire, subappalta consapevolmente disumanità? In cosa consistono, ancora, se non nell’ennesimo inchino dell’Europa dei diritti a chi diritti non conosce? Al-Sisi, come Saïed in Tunisia, ha preso il potere con un colpo di Stato militare. Dal 2013, e almeno fino al 2030 (grazie a un “referendum” costituzionale che deroga alla regola dei due mandati), governa con metodi autoritari, oppressivi e irregolari che hanno catapultato l’Egitto in una crisi economica sempre più nera (la povertà assoluta, nel Paese, supera il 33%) e, soprattutto, in una dittatura che in tanti definiscono persino più dura della storica di Hosni Mubarak. In Egitto, oggi, non esiste stampa libera, non c’è opposizione che non venga repressa con violenza e, nonostante la legge lo imponga, sempre meno cittadini vanno al voto. È questo il personaggio a cui l’Europa ha promesso sette miliardi di euro. È questo il Paese che continuerà a impoverirsi mentre il suo dittatore potrà castigare i sudditi con la frusta d’oro.
Nel lungo incontro a Il Cairo, protagonista tra tutti è stata Giorgia Meloni. Con lei al-Sisi ha voluto un bilaterale che ha anticipato il vertice UE: si è parlato di Piano Mattei, di cooperazione agricola e migratoria, di sicurezza idrica ed energetica, di sviluppo. Temi sin troppo impegnativi per lasciare spazio a quello che dovrebbe essere il primo – e direi persino l’unico – argomento tra Italia ed Egitto: l’omicidio di Giulio Regeni. Su sollecitazione dei giornalisti, la Premier si è limitata a dire che «l’Italia pone tendenzialmente sempre questa questione» per poi aggiungere che «cercheremo di ottenere qualcosa di più». Cercheremo? Chi? Quando? Cosa? «C’è un processo in Italia, noi siamo andati avanti a fare quello che dobbiamo fare» e cioè fissare un prezzo per quella giustizia e quella verità che non arriveranno.
Sin dal gennaio del 2016, vale a dire da quando si sono perse le tracce di Giulio Regeni, le istituzioni italiane non hanno mai realmente interrogato i propri interlocutori. Al massimo, come per ogni questione che conta, si sono appropriate di un hashtag diventato virale in tutto il mondo, qualcuna persino di un braccialetto giallo. Nel frattempo, sono trascorsi otto anni di occhi strizzati e strette di mano. Si sono succeduti diversi governi, ma nulla è cambiato: Italia ed Egitto, due Paesi che avrebbero avuto e hanno molto di cui discutere, hanno sin da subito pensato di portare avanti un teatrino di amorevoli intenti.
L’Egitto è un partner prezioso, persino più importante della vita di un uomo. Lo ha ribadito Salvini da Ministro dell’Interno, declassando il tutto a il problema Regeni; lo hanno ribadito tutti gli altri che a Roma si sono seduti e hanno taciuto. Si sono seduti e hanno finto. Nel frattempo, i rapporti tra i due Paesi hanno continuato a rafforzarsi senza soluzione di continuità: dalla vendita all’Egitto di due navi della marina militare italiana per un valore stimato di circa 1.2 miliardi (un affare parte di una commessa ancora più ampia – l’introito si aggirerebbe tra i 9 e gli 11 miliardi di euro) al memorandum di domenica, il tradimento a Giulio, ai suoi straordinari genitori e a ciascuno di noi, pare evidente e non imbarazzare chi di dovere. Nemmeno l’Europa, sempre quella dei diritti, dello spessore morale a doppia faccia: da un lato armando i conflitti, dall’altro pagando i dittatori.
È da tempo, ormai, che da Palazzo ci raccontano di una possibile collaborazione tra le parti per sapere cos’è successo otto anni fa: non ultima la falsa apertura delle autorità egiziane sulle indagini relative alla scomparsa del ricercatore trovato morto il 3 febbraio del 2016 sulla strada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto. Negli stessi giorni, i PM egiziani formulavano alcune richieste investigative per meglio delineare l’attività di Regeni in Egitto, mentre inviavano i presunti effetti personali del ricercatore – in realtà dei falsi – a più di un anno dalla rogatoria a cui il Paese di al-Sisi tuttora non ha dato risposta, a cominciare dalla richiesta di consegna delle cinque persone iscritte nel registro degli indagati dalla procura di Roma affinché potessero essere processate in Italia.
Da quell’iscrizione sono passati troppi anni, eppure nulla è cambiato e nulla fa presagire un cambiamento. Almeno finché i rappresentanti di casa nostra non smetteranno la loro complicità. Queste persone – Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, vicinissime al governo di al-Sisi – devono rispondere di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. A oggi non si sa dove siano.
Anche per l’Europa l’Egitto è un importante partner commerciale e nessuno, a partire dall’Italia, ha intenzione di incrinare i rapporti con quello che Donald Trump ha definito il suo dittatore preferito. Chissà quello di Meloni chi è, probabilmente Orbán. L’Egitto, inoltre, è il centro nevralgico della questione migratoria più attuale. È per questo che alla Premier, così come alla von der Leyen che sempre più spesso accompagna la leader di FdI a trattare con gli autoritarismi d’Africa, interessa oggi tenersi amico al-Sisi.
Nel suo Paese, infatti, sono presenti 9 milioni di migranti di cui 450mila rifugiati e richiedenti asilo. Il 40% è composto da minori; la metà invece viene dal Sudan, dove è in corso una guerra da sette milioni di sfollati che sembra non interessare nessuno. Lo stesso Egitto è terra di migranti: 11072 sono gli egiziani arrivati in Italia via mare nel 2023, prevalentemente dalla Libia, e lì rischiano di arrivare i tantissimi in fuga, o cacciati, dalla Striscia di Gaza su pressione di Netanyahu. A proposito di dittatori e di rapporti ambigui.
Ambigui come l’Italia, come l’Europa, come quella questione di cui tendenzialmente si parla, quasi fosse un fatto di costume. Ma i diritti non sono così, non sono un hashtag, una moda, un braccialetto. Non sono un pegno da sette miliardi di euro per dimenticarsi dei disperati della Terra. Non sono il prezzo di Giulio, della lotta per la verità e la giustizia che dobbiamo a lui, alla sua famiglia, al senso di umanità che non va perduto. Una lotta che semmai dovesse giungere alla vittoria non deve permettere a nessuno – se non ai signori Regeni – di attribuirsene la paternità. Nessuno potrà cannibalizzare la figura di Giulio. La figura di un giovane che, forse, è morto anche per noi.