Siamo diventati uno Stato violento, o forse lo siamo da sempre. Ma adesso non abbiamo più paura di mostrarci. Ce lo dicono chiaramente le immagini degli studenti di Pisa manganellati brutalmente mentre marciavano per la pace. Ce lo dicono le scene di tutte le più recenti manifestazioni per la Palestina represse nel sangue. E i continui episodi di violenza che emergono dai luoghi di detenzione, mentre le persone recluse sono sotto la custodia – e la protezione? – dello Stato.
Uno degli ultimi risale a poche settimane fa: nelle terribili immagini diffuse dal carcere di Reggio Emilia si vede un uomo di circa quarant’anni, incappucciato, che viene gettato a terra, spogliato e malmenato da alcuni agenti penitenziari. I fatti risalgono ad aprile scorso: si tratterebbe di un lungo video di cui sono stati diffusi solo alcuni spezzoni che mostrano però immagini molto eloquenti in ragione delle quali la Procura ha avviato un’indagine per tortura a carico di otto agenti. L’udienza preliminare si terrà il 14 marzo.
Il giudice Luca Ramponi ha definito il pestaggio un atto brutale, feroce e assolutamente sproporzionato rispetto al comportamento del detenuto: l’uomo tunisino stava infatti uscendo dall’ufficio della direttrice del carcere – possibile che a pochi metri di distanza possa non essersi accorta di nulla? – dopo aver ricevuto un provvedimento di isolamento. Qualunque sia stata la sua reazione, nulla giustifica la violenza di un’istituzione che attraverso i suoi rappresentanti ti sottopone a simili trattamenti. Il detenuto è poi rimasto da solo in isolamento, dove si è ferito con i cocci del lavandino che era riuscito a rompere, provocandosi tagli profondissimi. E solo a quel punto ha finalmente ricevuto soccorso.
Altri agenti sono accusati di aver dichiarato il falso poiché dopo la denuncia hanno ricostruito la vicenda affermando che l’uomo avrebbe opposto resistenza, minacciando i poliziotti con delle lamette, ma la versione è stata considerata non veritiera dalla Procura.
Le risposte repressive a cui assistiamo sempre più spesso pongono numerosi altri interrogativi, innanzitutto sull’incapacità delle nostre istituzioni di prevenire le situazioni di disagio e tensione con risposte molto più efficaci di quelle utilizzate. Basti pensare al carcere: tante delle persone che ricevono un provvedimento di isolamento, che provano a ferirsi o addirittura a uccidersi, e che poi possono diventare esse stesse vittime di atti violenti e brutali come quello appena raccontato, probabilmente non sono idonee alla detenzione. Almeno non nel senso repressivo che essa ha assunto nel nostro Paese.
Siamo uno Stato violento, che non ha altri strumenti se non quelli di segregazione e repressione, anche per i più giovani. Basti pensare che abbiamo nuovamente raggiunto le 60mila presenze in carcere, numeri che non si sfioravano dalla condanna della CEDU all’Italia nel 2013 per trattamenti inumani e degradanti proprio per le condizioni di sovraffollamento registrate. E, ancora, che le condizioni di disumanità sono tali che i detenuti che si sono tolti la vita nei luoghi di reclusione in soli due mesi sono 21. E, peggio, che negli ultimi dieci anni non sono mai stati così tanti i minori in carcere: anche per loro l’unica risposta che il nostro Stato propone è quella detentiva e punitiva, con provvedimenti come il cosiddetto Decreto Caivano che ha già avuto un effetto distruttivo.
Poche settimane fa il Presidente della Repubblica Mattarella ricordava che l’autorevolezza delle forze dell’ordine – e dello Stato che rappresentano – non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento. Ci sentiamo di aggiungere che in uno Stato di diritto che vuole considerarsi ancora tale questo vale per tutti, in un momento in cui esprimere le proprie opinioni sembra diventato sempre più complicato. Le forze dell’ordine sono diventate baluardo e strumento della repressione contro il dissenso.
Lungi da noi ridurre la deriva autoritaria e repressiva a quest’ultima legislatura: il declino è iniziato ben prima e ha appena raggiunto il suo apice. Degli innumerevoli episodi di violenza che accadono nel nostro Paese solo pochi vengono registrati, ancor meno denunciati e, tra questi, solo per una piccola percentuale il processo ha un seguito. Non si tratta però – come denuncia anche l’Associazione Antigone – di casi isolati.
È, ad esempio, quanto accaduto a due ragazzi fermati da alcuni agenti e portati alla Caserma di Sassuolo, dove sarebbero stati sottoposti ad agghiaccianti e ingiustificate violenze, e il cui caso è stato sottoposto all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo: per la procura italiana infatti, pur riconoscendo un comportamento inappropriato degli agenti, il caso è stato archiviato. Sì, abbiamo il coraggio di parlare di inappropriatezza di fronte un ragazzo – ripreso per fortuna da alcune telecamere – che è in un angolo del corridoio e viene costretto a spogliarsi, mettersi a novanta gradi, infilarsi le dita nel retto fino a sanguinare e poi picchiato.
Poco consono – perché così si legge – è saltare la fila. È avere un tono di voce troppo alto. Inappropriato è rispondere male a un collega o dimenticare il compleanno di un amico. Ecco, non è poco consono abusare di due ragazzi inermi da parte dello Stato che dovrebbe tutelarli: è brutale, violento e fascista. Ma forse è proprio questo che siamo diventati.