’O mare è nu rullo, ca te piglia e nun te lassa cchiù.
Il mare è un rullo, che ti prende e non ti lascia più.
Un esperto uomo di mare mi ha ripetuto questa frase fin da quando ero bambina, in napoletano. Non ho mai voluto crederci. Ho sempre sperato che il mare non potesse rubare la vita, che potesse solo restituirla. E, invece, quella di Anna Claudia Cartoni, ex ginnasta, tecnico federale e giudice internazionale di ginnastica artistica, se l’è presa davvero, in un incidente fra un motoscafo danese e una barca a vela sulla quale c’era proprio lei, il 23 luglio del 2022. Non l’ha restituita più. A oggi, Anna Claudia risulta ancora dispersa.
Forse perché le vite vissute con l’intensità con la quale lei ha vissuto la sua non possono mai essere dichiarate finite. Forse c’è bisogno di pensare a queste persone vive da qualche parte, magari programmando un ritorno, perché non ce la si fa a credere che non tornino più. Forse possono depositarsi lì, sul fondo del mare, spargendo un po’ del proprio spirito vitale, nella speranza che possa riprodursi, prima o poi.
Anna Claudia Cartoni aveva una figlia, Irene, gravemente disabile. Aveva scelto di non fermarsi ai “non può, non ha, non potrà, non avrà” scritti a caratteri cubitali sulle cartelle cliniche fin da quando la bambina era nel ventre materno. Aveva voluto scovare, in mezzo a ogni impossibilità, una possibilità nuova: regalarle la vita, una vita più normale possibile; crearla, quando non era contemplato potesse esistere, non per Irene. Aveva ostinatamente cercato il modo in cui poter realizzare un mondo a misura di sua figlia, pensando a come renderlo accessibile per la sua felicità.
Aveva scelto di vivere e far vivere Irene nella libertà e da persona libera, anche se la vita e purtroppo la società sembravano aver in serbo per loro solo disegni di prigionia. Anna Claudia aveva imparato a conoscere i bisogni speciali di sua figlia e di tutte le persone disabili, rispettandoli senza mai affrontarli con commiserazione, ma con grande lucidità. Aveva letto e previsto un mondo di tutti e per tutti attraverso lo sport, al quale aveva già dedicato la sua esistenza, fin da bambina.
A proposito dello sport diceva: «È un treno che raccoglie tutti, rallenta dove c’è la necessità di far salire qualcuno. È un canale di grande integrazione e condivisione e nessuno deve essere escluso dalla gioia di praticarlo. Se si uniscono le forze, anche le persone con disabilità talmente gravi possono sperimentare grandi emozioni. L’inclusione è reale e bella quando sei consapevole che è una ricchezza per tutti, sani e meno sani, e la conoscenza di mondi diversi è l’arma vincente per una vera accoglienza».
Anna Claudia aveva scelto di creare squadra, insieme a suo marito e papà di Irene e ad altri genitori interessati alla felicità di tutti, collaborando con varie associazioni fra cui Sod Italia, La corsa di Miguel, i Tetrabondi, e partecipando a diverse maratone con le joelettes, carrozzine fuoristrada monoruote per persone disabili che consentono loro di fare escursioni con l’aiuto di due accompagnatori.
Irene non ha mai comunicato verbalmente, non ha potuto dire mamma. Eppure, raccontava Anna Claudia, sapeva quando accanto a lei c’era sua madre. Avevano stabilito un con-tatto profondissimo, dove il tatto era fondamentale per sentire e vivere emozioni grandi.
Anna Claudia non aveva mai accettato, perché è inaccettabile, che sua figlia non potesse passeggiare per le strade della sua città o entrare in diversi luoghi, fra cui le scuole, a causa delle barriere architettoniche, o che dovesse sollecitare e a volte pretendere attenzione per vedere rispettati i diritti di sua figlia, come l’assistenza infermieristica o l’assistenza infermieristica a scuola.
Rivendicava la gioia, la scoperta, la felicità, come parte integrante di una vita colpita dalla disabilità. E la rivendicava perché sapeva come e quanto fosse possibile, seppur a volte complesso, viverla e farla vivere a Irene. La sperimentava ogni giorno.
Aveva sempre rifiutato appellativi come mamma coraggio, mamma guerriera e bambina speciale per Irene. Raccontava quanto la sua vita scorresse su un binario parallelo a quella degli altri, ma a un passo più lento. Avrebbe voluto solo smettere di lottare per ciò che semplicemente spettava a lei e a sua figlia, per ciò che erano e sono diritti violati.
Ora Anna Claudia non c’è più. È dispersa. Non c’è più nemmeno Irene. È morta, improvvisamente, il 15 febbraio scorso, un mese fa. Perché nella disabilità gravissima in un attimo si può smarrire un equilibrio molto precario, raggiunto a fatica dopo anni, a volte in una vita intera, e può costarla quella vita.
Perché sto provando a raccontare le loro storie? Perché non voglio si dissolvano, non voglio si dimentichino, non voglio si releghino a un pietismo inutile. Vorrei si gioisse, con loro e per loro, per ciò per cui hanno combattuto, per ciò che hanno raggiunto. E vorrei si soffrisse per ciò che non hanno raggiunto mai, perché il loro grido è rimasto inascoltato.
Vorrei si soffrisse per la morte che le ha strappate alla vita, non riconoscendo quanta vita erano riuscite a strappare alla morte. Non capendo quanta ancora sarebbe stato giusto ne vivessero. Vorrei che ogni volta che sfiorerà il pensiero della vita e della morte di Anna Claudia Cartoni una barriera architettonica fosse abbattuta. Perché vorrei che il mondo di tutti e per tutti fosse costruito, che ogni persona gravemente disabile possa accedere ai mezzi pubblici senza per questo rischiare per inadempienze dei cittadini e di chi sta loro al vertice.
Perché voglio che nessun essere umano resti inascoltato, anche quando comunica nell’unico suo modo possibile, un modo diverso rispetto a quello cui siamo abituati. Voglio accostare l’orecchio e il cuore, fino a quando tutti sapranno comunicare in LIS, fino a quando tutti conosceranno lo strumento della comunicazione aumentativa alternativa.
Sogno gli abbracci, le carezze, i baci come linguaggio universale. Sogno il giorno in cui la disabilità sarà diventata scambio e risorsa e non privazione e chiusura totale.
Perché Anna Claudia e tanti altri genitori, lottando ogni giorno, spesso nell’indifferenza, senza mai arretrare di un passo, ci hanno spiegato e ci stanno spiegando come si fa, come può essere realizzato un mondo a misura di tutti ed è dovere di ognuno, nessuno escluso, contribuire a farlo e a crearlo.
Grazie Anna Claudia. Grazie Irene. Ovunque voi siate. E un ringraziamento sentito e commosso a Valentina Perniciaro della Fondazione I tetrabondi.