Il disturbo – lo dice la parola – disturba; è lì per disturbare. Un’interferenza di cui non ci si libera, e che si fa fatica a tenere a bada. Il disturbo non sei tu ma è dentro di te, pertanto risulta difficile fare troppe distinzioni, dove cominci tu e dove finisce lui. – Fuani Marino, Vecchiaccia
La verità si può dire sempre. È ciò che ha affermato Antonella Zarri, madre di Alice e Alberto Scagni dopo che suo figlio, quarantaduenne detenuto nel carcere di Valle Armea con una seminfermità mentale riconosciuta, è finito per la seconda volta in ospedale a causa di un pestaggio massacrante da parte dei suoi compagni di cella. Ma partiamo dall’inizio. Anzi partiamo dolorosamente dall’inizio della fine di una vicenda molto complessa.
È il primo maggio 2022. Alberto Scagni, paziente psichiatrico, è in uno stato alterato e delirante. Chiede soldi ai genitori, li minaccia. Si rivolgono al 112. Già nei due mesi precedenti al fatto si sono rivolti molto spesso al centro di salute mentale di Genova per la degenerazione delle condizioni dell’uomo, per la sua condotta violenta e allarmante. L’ultima chiamata al 112 dura quattordici minuti. È il primo maggio, ci sono cortei per la festa dei lavoratori. Nessuno interviene in alcun modo. Alberto, fuori di sé, va sotto casa di sua sorella, giovane madre e moglie, la aspetta e la uccide con numerose coltellate quando esce per portare a spasso il suo cane.
È l’inizio della fine per due famiglie: c’è un bambino, di poco più di un anno, che ha perso sua madre. C’è un marito, Gianluca Calzona, che ha perso sua moglie. E ci sono dei genitori, Antonella Zarri e Graziano Scagni, che hanno perso due figli. Il PM riterrà l’uomo capace di intendere e volere, il perito di corte gli diagnosticherà un disturbo narcisistico e borderline della personalità, ritenendolo seminfermo, il consulente della famiglia Scagni lo riterrà totalmente incapace di intendere e volere. Alberto verrà condannato a trascorrere ventiquattro anni e sei mesi di reclusione in carcere più gli ultimi tre anni in una Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Dunque, proviamo a riavvolgere il nastro. Se una persona ha un problema organico agli occhi che la costringe alla cecità, nessuno si stupisce che non veda. Perché invece con le persone affette da patologie psichiatriche ci si sorprende se hanno una visione alterata o nulla della realtà che le circonda e un’imprevedibilità molto accentuata? Perché le si incolpa per questo invece di prestare loro soccorso? Qual è la tara all’interno dei centri di salute mentale che impedisce al personale sanitario di provare a far fronte alle emergenze?
Ogni essere umano, ogni medico, ha dei limiti di fronte la malattia. Ma perché non tentare di intervenire in qualche modo su un uomo e una patologia seria preda dell’imprevedibilità più oscura? Perché delle tante chiamate messe agli atti della famiglia Scagni nei mesi precedenti al delitto molte sono rimaste senza risposta? Può negarsi un centro di salute mentale, o permettersi di essere intempestivo, quando si sa che la malattia può far gravemente vacillare l’incolumità della persona che ne soffre e di chi le sta accanto in qualsiasi momento?
Può essere richiesto a due genitori disperati cosa avrebbero dovuto o potuto fare per evitare il delitto? No, non si può. Perché, in una società civile, esiste il diritto a essere soccorsi quando si è in situazioni di pericolo o estremo disagio. Eppure è accaduto. I coniugi Scagni non hanno nascosto il problema, non hanno finto di non averlo, non hanno mai chiuso gli occhi. Sono stati lasciati in una profondissima solitudine dagli esiti fatali.
In una società civile non si può morire a 34 anni perché chi lavora a sostegno di una comunità, come il personale sanitario e la polizia, allertati, non hanno nemmeno provato a evitare il peggio. Ma torniamo per un attimo alla condanna. Alberto Scagni è stato condannato a ventiquattro anni e sei mesi di carcere, durante i quali non gli spettano, ancora una volta, una sorveglianza e una cura tali da riuscire a evitare rischi per la sua incolumità e per quella altrui. Solo alla fine di questo lungo periodo gli spetterà un triennio in una Rems. Ma come è possibile che nessuno si renda conto che andando avanti cosìnon ci arriverà mai? Come si può non rendersi conto che le cure non possono aspettare a quando da curare non ci sarà più nulla?
La sua incolumità è stata minata già due volte da alcuni compagni di cella; la prima a ottobre nel carcere di Marassi, la seconda nel carcere di Valle Armea a novembre, dove è stato ridotto in fin di vita e operato più volte per risvegliarsi solo qualche giorno fa dal coma farmacologico. Il sistema carcerario dov’era mentre si consumavano i due violentissimi pestaggi? Dov’è la rieducazione alla base di ogni pena detentiva?
Come ha riportato Ilaria Cucchi, quando lo scorso 4 dicembre Antonella Zarri si è recata in carcere per capire la dinamica dei fatti, le è stato riferito da alcuni detenuti di aver cercato di fermare gli aggressori. Che il massacro è durato tre ore. La polizia penitenziaria le ha detto che non si può parlare con i detenuti. È giunta in cella di suo figlio. Dove si è consumato il massacro. C’erano macchie di sangue sparse ovunque. Resti di tavoli e brande. Un membro della polizia penitenziaria si è qualificato come comandante. Pare abbia detto che sono cose antipatiche queste. Un ragazzo in fin di vita, mentre è nelle mani dello Stato, davvero è solo una cosa antipatica, una scocciatura di cui si farebbe volentieri a meno? Davvero questo Stato può essere definito tale?
La signora Zarri ha chiesto cosa fosse successo. Le è stato risposto che c’è un’indagine in corso. La verità si può dire sempre. Ha ribattuto la signora Zarri. Non ha ricevuto repliche.
Sì, signora, la verità si può dire sempre. Tranne quando l’abbandono di chi non può sorreggersi da solo diventa la regola e la codardia di chi non l’ha sostenuto un atto di cui nemmeno ci si vergogna più. Su cui nemmeno si riflette, almeno un po’. Tranne quando chi, singolarmente, dovrebbe fare le veci dello Stato dimentica di essere stato. Tranne quando chi di dovere dimentica di redarguire qualsiasi rappresentante statale calpesti chi andrebbe sorretto. Tranne quando insabbiare la realtà conta più della verità, così semplice da intuire (soprattutto per quanto riguarda i pestaggi), così difficile da ammettere.
Che le ingiustizie dolorosissime di questa storia possano essere dipanate, che la verità possa essere illuminata, che si possa agire per non ripetere l’ennesimo disumano trattamento. Che la verità possa sempre essere detta. Che il non detto possa smettere di essere tollerato. Che la sanità pubblica possa essere potenziata. Che le pene detentive possano essere private di ogni frammento di disumanità.
Questo è Stato. Il resto è solo inammissibile realtà. Eppure qualcuno non ha nemmeno provato a impedire che fosse veramente reale.