Sabato 25 novembre è stata la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La sua istituzione nasce da un episodio reale e dovrebbe servire a sensibilizzare la cultura alla presenza e alle insidie della violenza sulle donne, troppo spesso taciuta, lasciata subdolamente accadere tra le mura di casa, spesso di fronte ai bambini, tra le parole usate nel nostro linguaggio, fino a scorgerla negli ambienti sportivi, lavorativi, politici, assistenziali.
La violenza sulle donne, considerata nella sua pervasiva presenza e pensandola secondo uno schema piramidale dall’azione meno grave (ma comunque di matrice violenta come il catcalling) fino a quella più estrema (il femminicidio), è ovunque e perpetrata potenzialmente ogni giorno da ogni uomo.
Il 25 novembre del 1960, Rafael Leonidas Trujillo, l’allora dittatore della Repubblica Domenicana, ordinò l’uccisione delle sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal che da dieci anni combattevano attivamente e con lucida rabbia contro il regime vigente. Le tre donne, infatti, avevano contribuito a creare un movimento di lotta e resistenza antitrujillista che stava prendendo consensi clandestini in tutto il Paese e che venne denominato Movimento 14 giugno, a cui aderirono anche i loro mariti. Il movimento venne presto intercettato dalla polizia di Trujillo e tutti i principali sostenitori e membri vennero messi in carcere, perseguitati o uccisi. Anche i compagni delle sorelle Mirabal furono incarcerati.
Il 25 novembre, dunque, le tre sorelle stavano andando a trovare in prigione due dei loro mariti, Manolo e Leandro. Sulla strada, però, la macchina guidata dall’autista Rufino de la Cruz venne bloccata dalla polizia, tutte le persone furono trasportate con la forza in un posto appartato – si racconta in una piantagione di canna da zucchero – e uccise a bastonate. I corpi delle tre sorelle, insieme a quello dell’autista, vennero riposizionati nella macchina, che a sua volta fu fatta precipitare in un dirupo per simulare un incidente.
Qualche anno più tardi, nel 1981, ci fu in Colombia il primo Incontro internazionale femminista e proprio in quell’occasione la Repubblica Domenicana propose di rendere onore alla memoria delle tre sorelle Mirabal proponendo la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che, nel 1993, fu ufficializzata anche dalle Nazioni Unite, confermando la data scelta dalle attiviste latinoamericane.
Da quel momento, il 25 novembre è un giorno simbolo per tutti i collettivi e i movimenti femministi del mondo, che cercano quotidianamente di evidenziare e combattere la violenza di genere al fianco delle donne e di tutte le persone della comunità LGBTQIA+. In Italia, per esempio, da otto anni il movimento Non una di meno organizza un corteo, una piazza che non può e non potrà mai essere neutra perché, in particolare di fronte al dibattito politico che continua a mirare agli inasprimenti delle pene per i soggetti maltrattanti, non si sta fornendo nessuna risposta concreta in termini di misure legislative e di finanziamenti alla prevenzione della violenza di genere e al sostentamento di tutti i centri anti-violenza italiani, costantemente sottofinanziati.
Sabato 25 eravamo in 500mila al Circo Massimo. So che Non una di meno tempo fa, in fase di organizzazione del corteo, si chiedeva se sarebbe riuscita a riempire un posto così grande. Non c’è stato bisogno di alcun ripensamento: sono anni che vivo a Roma e che d’estate assisto ai concerti al Circo Massimo e posso assicurare di non aver mai visto così tante persone tutte insieme, comprese in quello spazio tra il Palatino e l’Aventino. Appena arrivata, da una via parallela, si è affacciato al mio sguardo un oceano di persone: siamo marea, si legge ovunque sotto le foto postate sui social ed eravamo davvero una marea inarrestabile. Ho avuto i brividi ad attraversare la piazza, per il freddo sì, ma anche e soprattutto per l’abbraccio collettivo che ogni presente si è dato. Ci sono stati canti urlati, richieste urlate, cori intonati all’unisono, striscioni alzati, occhi lucidi, mani strette, il rosa sparso ovunque.
Frequento da anni il corteo di Roma creato da Non una di meno ed è stata la prima volta che mi sono sentita circondata da persone che so non essere nella bolla femminista. Per la prima volta possiamo avere la consapevolezza che la violenza di genere – con tutto il campo semantico sociale che comporta – non è più solo appannaggio delle femministe, delle sociologhe e delle operatrici sociali dei CAV, di qualche legge buttata lì come contentino: l’opinione pubblica si è smossa, ogni persona è stata toccata – in diversi modi – dalla recente scomparsa di Giulia Cecchettin, uccisa dal suo ex fidanzato e tristemente addizionata ai 102 (in quel momento) altri femminicidi perpetrati in questo anno nel nostro Paese.
Credo che la presenza di 500mila persone solo a Roma, insieme alle altre presenti in molte piazze italiane, sia un rinnovato punto di partenza che non possiamo disperdere nel nulla. Abbiamo il dovere, come movimenti femministi, di usare la partecipazione per fare un’enorme pressione sulla politica e sulla cultura tutta, per l’inserimento obbligatorio dell’educazione relazionale e sessuale nelle scuole e nelle università, per i finanziamenti ai CAV, per il reddito di autodeterminazione, per le garanzie reali al diritto di una casa sicura, per la formazione delle persone che per prime intervengono in caso di violenza (gli operatori della polizia e dei servizi sul territorio), per la creazione di una narrazione altra sui mass media, sulla stampa, nelle pubblicità, sui social network, per evitare non solo la romanticizzazione della coppia e dei maltrattanti, abuser e assassini, ma anche per evitare la vittimizzazione secondaria delle vittime.
In questo momento, con il governo guidato dalla Presidentessa Giorgia Meloni, si sta assistendo a un contrasto solo formale alla violenza di genere e ancora una volta basato sul concetto stesso di violenza come l’inasprimento delle pene, la strumentalizzazione degli stupri di Palermo e di Caivano, la deresponsabilizzazione politica nel considerare fatti accaduti nel Sud Italia unicamente come la conseguenza dell’appartenenza a territori marginalizzati, periferici, poveri rispetto al resto del Paese. Come dicevamo, però, il femminicidio di Giulia Cecchettin ha cambiato tutto e non risponde più a queste sterili logiche politiche.
Nei giorni precedenti il 25 novembre, Non una di meno continuava a scrivere sui social network che la piazza creata negli anni non è neutra ma politica: significa che attualmente è una piazza che si riconosce nella teoria e pratica transfemminista intersezionale. Vuol dire che manifestare e dichiararsi contro la violenza sulle donne non basta per portare avanti tutte le istanze femministe e per aderire alle lotte del femminismo. Riconoscere il carattere di intersezionalità delle istanze politiche è fondamentale perché – parafrasando Angela Davis – non posso essere libera nel mio Paese se ci sono donne e persone che non lo sono nel proprio.
Non può esserci femminismo intersezionale, quindi, senza prendere una posizione netta contro l’occupazione di Israele sulla Palestina; senza pensare a come le donne nere e le persone nere stanno vivendo in questo momento negli Stati Uniti il lento processo dell’uscita da un sistema razzista; senza ricordarci delle donne morte in Iran per un velo malmesso; senza fare letteralmente nulla per il Sud Italia, senza portare sotto i riflettori mediatici gli infiniti problemi dell’antimeridionalismo nel nostro Paese; senza studiare cosa sta accadendo agli indigeni del Sudamerica o a quelli che vivono e resistono contro la deforestazione dell’Amazzonia; senza pensare ai problemi del capitalismo, delle classi sociali, delle infinite problematiche legate a esse. Non può esserci femminismo intersezionale senza fare azioni ogni giorno e proporre soluzioni dalle più vicine questioni di genere, razza, classe sociale fino alle più lontane questioni di occupazione, colonialismo e repressione.
La violenza di genere è uno dei problemi che i femminismi cercano di combattere e sradicare, chiedendo alla cultura e alla politica strumenti risolutivi. Ma i femminismi hanno anche centinaia di altre questioni su cui spendere energie, forze, parole e rabbia. Sarebbe bello abbracciarsi e abbracciare insieme tutte queste lotte perché sono anche le nostre.
Contributo a cura di Clara Marziali