In questo momento storico dove gli scenari planetari sono sconvolti dai profondi rumori delle guerre, dove i fronti militari sono così vicini a noi e la logica atroce della fame predatoria di territorio e di risorse economiche e la logica del profitto sembrano essere l’unica ragione vincente, rileggere i poeti diventa una medicina necessaria, almeno per respirare per un istante un’aria diversa.
Ho scoperto tardi Christian Bobin, poeta e scrittore pluripremiato in Francia, stimato e apprezzato a livello internazionale. L’ho scoperto leggendo un altro libro di poesie dove era citato e, come spesso succede, un’opera è costruita da una rete fruttuosa e originale di tante altre letture e di tanti incontri.
Abitare poeticamente il mondo. Le platier siffleur è un testo incantevole e suggestivo, che unisce il pensiero filosofico di Bobin con lo slancio poetico delle immagini richiamate dalla sua memoria viandante. Ogni sua frase indica lo spessore filosofico della sua ricerca esistenziale, il suo impianto ben preciso. Come afferma con chiarezza Sara Costanzo nella prefazione, la poesia è un’arte della vita, una pratica di relazione con il mondo, un modus vivendi, una vibrazione dell’essere. La poesia è in profonda relazione con la cura. Vuol dire che il poeta sente l’urgenza di prendersi cura delle parole e dei luoghi, reali e immaginari, esercita quotidianamente uno sguardo che prevede la contemplazione senza possedere, il sentire senza dominare, l’essere senza l’avere. Il registro semplice e chiaro non significa mancanza di spessore speculativo.
Sulla strada che mi porta a casa, trovo a volte delle piume bluastre di ghiandaia, esplosioni di azzurro. È molto poco, quello che faccio. Cerco di raccogliere delle cose poverissime, apparentemente inutili, e di portarle nel linguaggio. Perché credo soffriamo di un linguaggio che è sempre più ridotto, sembra più funzionale. Abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo.
In questo cammeo di prosa poetica, Bobin rinchiude alcune sue coordinate storiche sociali e letterarie. Prima di tutto offre uno sguardo particolare sull’io lirico. Cammina per strada, una strada alberata dove gli uccelli trovano riparo. Dice che raccoglie cose inutili come la piuma azzurra di una ghiandaia, la nomina dandole la possibilità di una vita simbolica. La ghiandaia infatti è un uccello sentinella che annuncia i temporali. Chiude il suo pensiero con una riflessione sul mondo e sul linguaggio. Una riflessione profetica e amara.
Cosa significa diventare estranei al mondo? Vuol dire non sentire più di appartenergli, non identificarsi più nella grande famiglia creaturale ma sentire la separazione, la divisione tra gli uomini e il cosmo, tra gli uomini e la natura, tra gli esseri umani e le altre specie, diventando predatori senza compassione e senza misericordia. Bisogna tornare a sentire con lo stesso cuore. E allora dice che alla poesia spetta questo compito. Usa il verbo “addomesticare” e credo che in questo caso voglia dire “fare casa insieme”, sentire attraverso la poesia e il linguaggio condiviso di stare nella stessa casa, accorciando le distanze, abbattendo i muri che creano i conflitti tra le persone, tra i popoli per cause politiche ed economiche.
C’è qualcosa della vita che non scompare ma che si allontana. Semplicemente si allontana per un certo tempo, come un bambino che ha avuto troppi maltrattamenti eviterà di trovarsi in presenza dei genitori che lo hanno maltrattato […] Troppo male è stato compiuto ma non è irreversibile. L’uomo di oggi non è più cattivo di quello di ieri, è soltanto più smarrito.
Così afferma Bobin nel suo saggio poetico, sottolineando in modo accorato la speranza di una riconversione esistenziale, dopo aver tutti attraversato una lunga notte di dolore, in cui gli umani si sono smarriti. Stare nel mondo può essere un processo costante di trasformazione e di adattamento, un processo che si sviluppa in modo dinamico all’interno di ogni comunità vivente. Andare verso la distruzione oppure verso l’evoluzione ecologica che connette l’umanità all’ambiente che la ospita risulta una nostra scelta. Bisogna recuperare uno sguardo che accoglie il diverso, che accetta la cooperazione e non la competizione più aggressiva.
«Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare e imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. Il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca» dice così Zygmunt Bauman in piena connessione con Bobin. Da punti diversi il pensatore e il poeta si incontrano in una conversazione immaginaria, non esistita nella realtà, ma che considero possibile.
Sono sempre sul punto di scoprire qualcosa di importante e immancabilmente non lo scopro mai. Quale «cosa»? Non lo so. Non dubito della sua esistenza e del fatto che sconvolgerà la mia. Questa «cosa» è li, vicinissima, mi accompagna ovunque, avvolge i miei pensieri senza entrare in nessuno di essi. La «sensazione» di cui parlo e che non riesco a spiegare bene l’avverto sin dall’infanzia. Talvolta penso, come ho scritto all’inizio di questo quaderno: «Aspetto. Aspetterò tutta la vita». A volte, come questa mattina, mi dico pure: «Sono atteso. Non so dove, non so da cosa o da chi, ma sono sicuro di essere atteso».
In quest’altro pensiero poetico, tratto dal suo libro Autoritratto al radiatore, Bobin parla in un modo così semplice ed empatico della nostalgia e dell’attesa. Come scrisse il filosofo esistenzialista Kirkegard, l’individuo moderno si sente gettato alla nascita in un mondo incomprensibile, che genera ansia, angoscia e sofferenza. Eppure ognuno se riesce a leggersi dentro proverà quella strana sensazione di una profonda connessione con il creato. Una segnatura ancestrale, di impronta arcaica, che ci induce a sentirsi “attesa”. In questo atteggiamento c’è la radice del sacro, l’origine di quella appartenenza creaturale che lega ogni uomo a ogni fibra dell’universo.
Io mi occupo di ciò che è piccolo piccolo. Ciò che è minuscolo, infinitesimale. Alla domanda «che fai nella vita?», ecco quello che mi piacerebbe rispondere, quello che non oso rispondere: mi occupo delle cose piccole piccole, porto la testimonianza di un filo d’erba. Il mondo, così come va (male), lo conosco e lo subisco come voi, forse un po’ meno di voi; sotto un filo d’erba si è protetti da molte cose. Queste cose non le ignoro. Ma non è di esse che voglio parlare. Non è il mio ruolo, non è il ruolo che la sorte mi ha dato. Vedo anch’io il disastro. Come non vederlo? Il disastro è già avvenuto nel momento in cui inizio a scrivere. Prendo degli appunti su ciò che ha resistito, ed è, per forza di cose, ciò che è piccolo piccolo, ed è incomparabilmente grande, perché ha resistito, perché il fulgore del giorno, la parola di un bimbo o un filo d’erba hanno trionfato sulle realtà peggiori. Io parlo in nome di queste cose piccolissime. Provo ad ascoltarle.
Ecco, il poeta è il profeta dei suoi tempi, è Tiresia che vede il disastro mentre pronuncia il suo oracolo, è Cassandra che racconta il mondo. Mentre prende i suoi appunti sa che l’Apocalissi è inarrestabile ma il suo sguardo non si arrende. La vita prosegue malgrado l’azione feroce degli umani. La vita resiste sotto ogni filo d’erba. Si può leggere questa capacità resiliente della natura come un avvertimento speciale che poche orecchie possono ascoltare. Si tratta di aprirsi a un mistero che affascina a cui possiamo arrenderci con ritrovata innocenza, significa percepire quell’infinito che ci fa sentire inermi e minuscoli. Finalmente innocui e capaci di cura.
Analfabeta per tre giorni: niente di meglio che una preoccupazione per rendere il mondo illeggibile. Essa è un modo di prestare a se stessi un’attenzione così rumorosa che si finisce ben presto per non sentire più nulla – né se stessi né gli altri. Una morte nella vita. Dopo la mia morte ho aperto gli occhi. La prima cosa che ho visto stava a un metro da me, sulla destra: sette rose in un vaso trasparente, sette presenze così piacevoli che ho rimpianto di aver passato tre giorni tanto lontano da loro.
Bobin scrive usando una voce intima e familiare, una voce piena di intuizioni fragili eppure potentissime. Una voce che si pone ai margini per ascoltare meglio i segreti indecifrabili della vita, tutto il dolore disseminato nell’universo. Scardina ogni suo aforisma l’antropocentrismo occidentale.
Ho frequentato spesso il mondo delle case di cura e degli ospizi, cercando di catturare frammenti di vite da far rivivere in scena, nei miei spettacoli teatrali. Conosco il profumo dolciastro delle mele cotte nei reparti, e il suono pesante della solitudine: l’aria rarefatta e misteriosa di quel limbo che chiamano “Sala di terapia intensiva”, uno dei luoghi più sacri che abbia mai visitato, laddove vita e morte danzano in bilico sull’esile filo di una ragnatela.
La poetica del frammento, il linguaggio delicato delle cose minimali sono gli indicatori fondativi del suo stile. Gli alberi, gli uccelli, il mondo vegetale e animale si squadernano nelle sue pagine come un libro nel libro. Come un bambino che guarda ogni particolare con stupore e meraviglia, Bobin recupera il significato più sapiente della parola “cura”. Avere cura, essere attenti all’altro, lasciarsi andare allo slancio materno che empaticamente accoglie. Sono operazioni che presuppongono un certo tipo di relazione: rispetto, empatia, tenerezza, ascolto attivo e soprattutto superamento dell’ego. Bobin indica nel poeta contemplativo la sua scelta esistenziale e politica. Perché struttura una poetica della relazione non violenta. “Niente è più grande delle piccole cose” dice.