Buona apocalisse a tutti, cari lettori! Oggi parleremo di una novità, un tema più caldo della Sardegna quest’estate: IT-Alert, il recente sistema nazionale di allarme pubblico. Se il vostro smartphone si è messo a suonare e gridare come un matto mentre preparavate le orecchiette con le cime di rapa facendovi perdere svariati anni di vita, sappiate che è tutta colpa della Protezione Civile.
Già, da questa settimana i nostri telefonini saranno abilitati a urlarci contro in caso di incendi, nubifragi, frane gigantesche, torrenti esondati e mostri mutanti che emergono dal mare. Oh, ma questo qui è stato solo un test, tranquilli: mica siamo in uno stato di cataclisma costante che ci costringe a soluzioni distopiche come un sistema d’allerta nazionale.
Però, un lato buono della cosa esiste: il governo si è svegliato. Se ha creato un allarme anti-catastrofe-climatica vuol dire che si è accorto che la catastrofe climatica c’è. Niente più negazionismo: non fa caldo solo perché siamo in estate, l’inferno di fuoco in Sicilia e le inondazioni dell’Emilia-Romagna non sono normali e non va tutto bene.
Ammettere che c’è un problema è il primo passo verso la sua risoluzione. Finalmente, questa amministrazione cambierà le sue politiche. Giusto? Giusto un corno, cari lettori. Nonostante i cellulari si siano messi a gridare all’unisono come prova generale di una futura inondazione, in Italia si fa tutto come prima.
L’esempio dell’immobilismo del nostro governo è il consumo di suolo. La tragedia dell’Emilia-Romagna non ha acceso nessun campanello d’allarme: non solo il fenomeno non rallenta, ma ha ripreso a correre con maggiore forza, superando la soglia dei 2 metri quadrati al secondo e sfiorando i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un anno.
Ma cos’è adesso questo consumo di suolo, e cosa c’entra con IT-Alert? mi direte voi. Bene, facciamo un passo indietro: per consumo di suolo si intende la trasformazione di un terreno da naturale ad artificiale. Quando vengono costruiti un centro commerciale, un’autostrada, un parcheggio o una villetta, stiamo consumando il suolo del nostro Paese.
E cosa ci importa, direte voi, è solo terra. Eh sì, alla terra non facciamo molto caso, anche se la pestiamo per tutta la giornata. Non ci sembra importante: invece, il futuro del nostro Paese dipende proprio da quello strato sottile che si estende sotto i nostri piedi e dalla moltitudine di organismi che ci vivono.
Il suolo è un bene pubblico. Lo è perché ci fornisce cibo, biomassa, fibre e materie prime. Lo è perché regola i cicli dell’acqua, del carbonio e dei nutrienti, rendendo possibile la vita sulla Terra. Lo è perché è il più grande deposito di carbonio del pianeta, il che ne fa un alleato preziosissimo contro il cambiamento climatico.
E, spoiler, il suolo non si può ricostituire. Ci vogliono migliaia di anni per produrne pochi centimetri,e questi tempi estremamente lunghi di formazione lo rendono una risorsa sostanzialmente non rinnovabile. Si tratta di un bene fragile e limitato, e noi ne mangiamo 2 metri quadrati al secondo.
Stando al più recente rapporto del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), nell’ultimo anno le nuove coperture artificiali in Italia hanno riguardato 69,1 chilometri quadrati: si tratta di circa 19 ettari al giorno, il valore più alto degli ultimi dieci anni. La nostra costante ricerca di spazio sta portando all’urbanizzazione incontrollata delle superfici naturali: lì dove c’erano degli ecosistemi preziosi, ora ci sono distese di cemento.
E qui ritorniamo al nostro caro IT-Alert. Il suolo normalmente è in grado di assorbire acqua come una spugna, riducendo i rischi di siccità e allagamento. Comodo per un Paese notoriamente a rischio idrogeologico, no? Peccato che, quando copriamo quel suolo di cemento, lo impermeabilizziamo.
Il suolo impermeabilizzato perde la capacità di assorbire le valanghe d’acqua di fiumi esondati e piogge torrenziali, anzi: le incanala e le rafforza. Ricordate le terribili immagini che ci sono arrivate qualche mese fa dall’Emilia-Romagna? Le strade di cemento sono diventate fiumi in piena che hanno portato tonnellate d’acqua contro auto, case e abitanti.
L’Emilia-Romagna è, non a caso, sul podio delle regioni che nel 2021 hanno consumato più suolo in Italia: si è aggiudicata il bronzo con i suoi 630 ettari consumati, superata dall’argento del Veneto con 684 ettari e dall’oro della Lombardia, che ha consumato ben 883 ettari in più rispetto al 2020 (sì, la pianura padana ormai è un enorme polo logistico).
Altro che suolo-spugna: la pioggia non ha incontrato alcuna resistenza. Nell’ultima puntata di Presadiretta, i Sindaci dei Comuni alluvionati hanno chiesto in coro che si fermi l’assalto ai fiumi – è dagli anni Settanta e Ottanta che vengono deviati dai loro alvei originali e resi dritti come fusi per edificare villette ovunque – e una legge nazionale che contrasti il consumo di suolo.
L’Emilia-Romagna è una delle poche regioni che ha emanato una legge sul consumo di suolo che mira a raggiungere lo zero entro il 2050, ma secondo l’ISPRA e lo SNPA si è continuato a costruire. Per la Commissione Europea questo accade perché la Legge Galasso (che su scala nazionale si dovrebbe occupare di tutele ambientali) non è efficace.
L’assenza di un quadro omogeneo nazionale crea zone ombra in cui ci si riesce a muovere facilmente, e in direzioni assolutamente folli. Il rapporto dello SNPA ha dimostrato infatti che non solo in Emilia-Romagna si costruisce, ma che gran parte delle nuove costruzioni (più di 500 ettari) è proprio in zone a rischio idrogeologico: nel servizio di Presadiretta vengono mostrati nuovi cantieri al lavoro nei terreni che pochi mesi prima sono stati inondati.
Ma cos’è che si costruisce in Italia con così tanta fretta? vi starete chiedendo. Nonostante il calo demografico degli ultimi anni (una decrescita di popolazione di circa 405mila abitanti) il consumo principale di suolo proviene dall’edilizia residenziale (706 ettari di suolo impermeabilizzato, cioè oltre la metà del consumo permanente).
Analizzando i dati della cartografia SNPA risultano più di 5.400 chilometri quadrati di aree edificate (un territorio grande quanto tutta la Liguria), equivalente all’1,8% del territorio nazionale e oltre il 25% dell’intero suolo consumato. Secondo l’ISPRA e lo SNPA, se si lavorasse sulla rigenerazione urbana di quartieri già esistenti (spesso abbandonati, malmessi e malfamati) non ci sarebbe alcun bisogno di costruire sulle aree verdi.
Un esempio lampante di questa situazione è proprio Napoli e la sua provincia: si tratta della Città Metropolitana con la concentrazione più alta di suolo consumato nel 2021. Per chi ci vive, le motivazioni sono chiare. Molti dei suoi quartieri sono abbandonati a se stessi, degradati o completamente scollegati dal resto della città. Tantissimi palazzi antichi sono fatiscenti e abbandonati, il centro storico sta espellendo i cittadini per far spazio ai turisti. Cosa dovrebbero fare gli abitanti, se non riversarsi nelle nuove aree colonizzate?
Ma non è solo l’edilizia residenziale il problema: le principali cause di incremento della superficie nazionale consumata nell’ultimo anno sono la logistica e la grande distribuzione organizzata. Capannoni, stabilimenti, enormi parcheggi che coprono chilometri e chilometri di suolo: si tratta di una vera e propria trasformazione del territorio, avvenuta principalmente in Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e Lazio.
La grande distribuzione/commerciale (centri per la distribuzione di generi alimentari e agroalimentari, centri commerciali, outlet, etc.) conta il 24% del consumo di suolo complessivo, quella produttivo/industriale (strutture destinate sia ad attività produttive industriali che ad attività logistiche per la gestione e il trasporto delle merci) il 54% e l’e-commerce, anche se ci appare strano, il 22%.
I nostri smartphone ci hanno dato l’impressione che certi aspetti della realtà siano diventati evanescenti ed effimeri: abbiamo interi centri commerciali nel palmo della nostra mano e i vestiti che ordiniamo su ASOS e Zalando ci appaiono magicamente sotto casa. Ma la fisicità c’è eccome, nascosta negli svincoli autostradali dell’Emilia-Romagna: enormi capannoni, chilometri e chilometri di parcheggi necessari ai camion, autostrade a doppia corsia sulle quali corrono i nostri ordini.
La nostra smania consumistica ha reso fondamentale avere depositi per conservare le merci, enormi centri per venderle, spazi per trasportarle, e la merce ha vinto sulla sicurezza degli abitanti del Nord-Est. I piccoli Comuni, anche se si lamentano di questi insediamenti, non hanno alcun potere contrattuale contro i colossi di Singapore o Seattle: serve un intervento statale.
E qui ritorniamo al principio: abbiamo bisogno di politiche di prevenzione. È impensabile che la patata bollente venga lasciata alla Protezione Civile (che, ci tengo a precisarlo, non è formata da Avengers) e che l’unica possibilità di salvarsi da un’esondazione sia un allarme che – seppur utile – arriva quando è già troppo tardi.
Gli strumenti normativi necessari sono nelle mani del governo, ed è il momento di usarli. Abbiamo bisogno di normative stringenti verso i colossi della grande distribuzione e dell’edilizia, di politiche di rigenerazione urbana, di un ribaltamento della politica di gestione del territorio e dei fiumi che abbiamo portato avanti negli ultimi settant’anni. Tutelare il nostro patrimonio ecologico è in grado di salvarci la vita più di ogni allarme.