Li avete uditi mentre mi suddividono, a seconda dei loro interessi. Io non mi conosco quindi nessun “io”, oppure tanti “io” di cui essi si sono appropriati, per se stessi, in funzione dei loro bisogni o desideri… Sono smarrita, lo sono sempre stata, ma non lo sentivo. Tutta occupata a conformarmi a quello che loro volevano. – Luce Irigaray
L’adolescenza di una donna può perlopiù identificarsi con questo enunciato, espresso da un’autrice che si colloca ai vertici della teoria femminista. Per la mia parte, posso sottoscriverlo. Poi, dopo tali sommovimenti interiori, la vita scorre. Come dice l’autrice:
Succede così, che si va avanti, inciampando, cadendo e poi rialzandosi tra un dondolio di ossa e gli occhi stanchi, malgrado tutto si va avanti.
E non si fa più troppo caso agli sperdimenti, ai pozzi interiori di quella stagione ormai lontana. Ma uno sguardo a ritroso vi riconosce i bordi, i contorni, la stoffa di un vissuto strattonato, e vi scopre odori e risonanze familiari. Riconosce i pozzi a prima vista, ancora loro, ma divenuti più riconoscibili. Marika, protagonista del libro di Floriana Coppola La bambina, il carro e la stella (edito da Terra di ulivi 2022), attraversa anche lei questa parabola.
La fanciullezza è una stagione assai breve per figli e figlie rom, paragonata a quella dei gagè, gli altri. Un’infanzia, questa, spesso costellata da privilegi sconosciuti, ma che talvolta si capovolgono in trappole velenose, in inganni insospettabili. Carmen, amica gagè di Marika, lavoratrice presso un centro estetico e che, per questo, deve frequentare quel mondo di privilegiati, dice:
Vedrai, cresceranno e saranno degli adolescenti viziati appesi al cellulare, con scarpe e maglie di marca, sdraiati sui divani come tiranni stanchi.
La lunga adolescenza di Marika si colora di esperienze corali, entusiasmanti (le amiche gagè del centro estetico ne sono le figure determinanti) e di lugubri scenari esistenziali, fosche strettoie ai limiti della tollerabilità, pregiudicanti la libertà e la stessa vita. L’autrice, Floriana Coppola, dipinge tali affreschi con meticolosa attenzione ai particolari e lo sguardo di una donna non tralascia i dettagli tanto spesso ignorati.
Nello scioglimento finale della vicenda narrata, la protagonista, come una farfalla, abbandona la sua crisalide; rompe con le altrui richieste, che vorrebbero conformarla, ed esce dal bozzolo; spicca il volo, si alza nel cielo della riappropriazione di una vita che è irriducibilmente sua, respira l’aria che l’aspetta, che solo lei può ispirare. Per Marika dunque si spalanca un’apertura nel futuro, un’apertura non definita, che noi appena intravediamo ma sotto il velo del non detto si preannuncia. Svolta di cui il sogno del volo dell’aquila, annunciato nelle prime pagine, è stato una premonizione.
L’autrice, la cui consapevolezza di donna si insinua nelle pieghe e nelle fessure del libro con raffinata delicatezza, nelle ultime pagine ci consegna una Marika nuova, ma dai tratti ancora sospesi. Ha accettato la sfida, intrepida, guerriera nell’animo, ora prende forma la scommessa nonché promessa: accettare lo scontro, sostenere lo sguardo.
Vita adolescenziale difficile, piena stimoli discordanti, di intricate ambivalenze – ma non più di tante altre sue coetanee – inscritta com’è nell’habitat di un campo rom, oggetto di intolleranza da parte dei gagè, ma insieme luogo edenico. Qui lussureggiano le piante nell’incanto di un’anarchia ancestrale (nel campo rom, gli alberi erano creature selvatiche e Marika si sentiva così come loro). Il campo ispira tenerezza, una lirica intrinseca vulnerabilità: Tutto era fragile nel campo, tutto viveva come cosa fragile. Le leggi arcaiche di questo luogo, quelle che la nonna e il nonno hanno trasmesso, sono intrise di tinte elementari, primordiali, un mondo non ancora corrotto dalle logiche di mercato.
Ogni gesto aveva l’unico scopo di arrivare a sera nel proprio letto vivi e con la pancia piena. Non c’erano molte altre necessità. Si iniziava alle prime luci del mattino e si finiva quando si aveva fame.
Un mondo ecologicamente avveduto: loro [i gagè], gettano e i rom riutilizzano.
Già all’esordio del romanzo i bordi di un anfibio mondo interiore si annunciano: chi è Marika? Verme e poi crisalide, che rinasce farfalla. Sente la sua estraneità, avverte l’erranza sua nell’erranza della sua gente.
Non appartengo più al popolo errante. Non gli apparteneva più almeno nella vita quotidiana, ma l’albero era quello radicato nel sangue. E anche questo doppio risvolto esistenziale si insinua in lei: Non sapeva più chi era veramente, cosa stava diventando.
Quel mondo là fuori, un mondo egemone, vorace e crudele, da lei deve essere conosciuto, padroneggiato, ma c’è sempre il timore di tradire la propria origine: Ho imparato la lingua del mio nemico.
L’intesa con la nonna e il nonno, con il fratello, figure da cui riceve attenzioni e gesti di formazione, è sostanza privilegiata nel mondo delle relazioni intime. Il nonno con la sua fisarmonica le trasmette la seduzione della musica: Ed era proprio quello che voleva fare da grande: suonare la fisarmonica. La nonna le legge i sogni con le carte, un tarocco per ogni sogno: Il carro e la stella sono uscite per la bambina. Il padre è figura distante, ostile, pericolosa: Non sapeva che farsene delle femmine, solo problemi, solo debiti portano. La madre l’ha custodita nella carne, con il marsupio: faceva i servizi con Marika abbracciata ai suoi fianchi. Mia madre è l’origine della mia parola.
E il sogno di Marika, quello di vivere una vita da musicista, si ispessisce ogni giorno di più. Cresce l’intuizione che la musica può darle la libertà. Mondo difficile quello del campo. Il mondo che esiste fuori dal perimetro dell’accampamento sta contaminando i desideri e i bisogni della sua gente.
Ma là fuori esiste anche un’isola scevra dai pregiudizi perlopiù riservati al popolo del campo. C’è chi sa donare amicizia, comprensione, aiuto. Sono donne che ha conosciuto per caso. Marika frequenta un bar e qui incontra ragazze che lavorano presso un centro di bellezza. Tramite loro, fa esperienza dell’amicizia vera. E attraverso loro viene a conoscenza di un mondo piccolo borghese, quello delle clienti, i cui dialoghi sono oggetto di perfide battute e salaci caricature da parte delle lavoratrici stesse.
Da osservare che, a questo proposito, Floriana Coppola inserisce annotazioni davvero sorprendenti. Difficilmente si riscontra un pensiero critico sul mito della bellezza che assedia in modo subliminale il genere femminile e lo intrappola nella logica dello sguardo maschile, resa ancor più potente degli strapoteri economici/commerciali. Le ragazze sembrano essere assai avvedute. Se il corpo di Marika cresce, cresce in parallelo la sua distanza dalle kampine (è il nome con il quale i bambini rom chiamano le loro roulotte).
Non sentiva più di appartenere al campo e nemmeno a quella gente che incontrava al bar. Stava cambiando dentro e fuori.
Segue una felicissima descrizione dei mutamenti fisici e psichici che germinano nel corpo delle ragazzine, corpi e menti che sbocciano insieme alla vita. Si fa sempre più corposa e impellente, allo stesso tempo, la promessa che da tempo cova dentro: essere musicista. Il plot della narrazione subisce un picco di accelerazione e di intensità con il ricatto che il padre di Marika le rivolge. L’uomo è a sua volta ricattato e minacciato di morte dal boss usuraio del campo.
Parlavo di pozzi nel mio esordio. L’autrice, con una scelta assai originale, costella i capitoli con una mezza pagina in corsivo, sui generis, straniante, squarci lirici nella tela; sonorità pure, a volte, fughe nella lingua del poetico. Ebbene, l’ultima di queste è incentrata sul silenzio. Prima di tutto viene il silenzio, scrive all’esordio della pagina. Il significante silenzio mi riannoda al pozzo. Curioso? Mi ha evocato, di rimando, il vuoto.
Il vuoto era, nell’epoca classica, la sostanza immateriale del tempio greco, ovviamente colta all’interno del tempio. L’eredità di un’età precedente, quando il culto della dea non era stato ancora oscurato. Una storica racconta: pensiamo che lo spazio interno del tempio, il tèmenos, sia lo spazio che è tenuto separato dal mondo secolare per significare l’interiorità, il vuoto che resiste e attende. Pensiamo che questo spazio vuoto si basasse sull’analogia con il potere femminile della riproduzione.
Il sacro coraggio di Marika e la sua sacra fiducia nell’amica ci evocano l’aurora, l’attesa che si annuncia nel vuoto, nel silenzio. Nell’attesa, è stata maturata la forza della disidentificazione dalla cultura che conforma le persone, le donne in primis, a svilenti destini; è stata accettata la sofferenza di strappi e fratture, è stata assunta l’imprescindibilità della sfida: non per soggiogare altre o altri, ma per difendere con i pugni e coi denti l’irriducibilità della propria vita.
Contributo a cura di Paola Cavallari, teologa e femminista, ex presidente e fondatrice dell’Osservatorio Interreligioso contro la violenza sulle donne