Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Era il 2003 quando Michele Salvemini, in arte Caparezza, cantava quello che sarebbe diventato uno dei simboli della propria notorietà. Venti anni dopo, lo stesso jingle racconta alla perfezione il nuovo romanzo della scrittrice Gaia Giovagnoli, Chiedi se vive o se muore, e, proprio come fu per il rapper di origini pugliesi, meriterebbe di sancirne il definitivo successo.
L’autrice classe 1992, dopo il buon esordio con Cos’hai nel sangue, torna in libreria per le edizioni nottetempo e dimostra, sin dalle prime pagine, una maturità e una consapevolezza che non possono lasciare indifferente il lettore. Così, il secondo secondo Gaia prende forma nell’urgenza di raccontare un mondo associato solitamente ad atmosfere esoteriche, quello dei tarocchi, l’intelligenza di esplorarne la natura scientifica e antropologica, e la consapevolezza di un tema importante su cui porre attenzione: la violenza e l’amore tossico.
Felici di una lettura mai fuori fuoco, di una voce chiara e diretta e di uno stile narrativo coraggioso, abbiamo intervistato la scrittrice di Rimini.
Gaia, ci siamo incrociati lo scorso anno per il racconto del tuo primo libro, Cos’hai nel sangue. Ci ritroviamo con questo nuovo romanzo, Chiedi se vive o se muore, e voglio subito chiederti: l’idea che mi sono fatto, ossia che, rispetto al precedente, questo testo sia figlio di un’urgenza, di un istinto, è corretta oppure no?
«Questo libro ha avuto varie fasi, è stato scritto, riscritto, ma nasce da una suggestione di Alessandro Gazoia. Chiacchieravamo al telefono, ragionavamo sul mio secondo romanzo, quando mi suggerisce di pensare a qualcosa legato ai tarocchi. Sapeva che leggo le carte e inizialmente la sua proposta mi ha molto colpita. Nonostante i tarocchi siano ormai piuttosto diffusi, infatti, ho pensato si trattasse di un tentativo un po’ particolare. Così ho cominciato a ragionare sulla possibilità di inserire osservazioni non solo da cartomante ma – essendo studiosa di antropologia – anche sul funzionamento dei tarocchi, provando a restituire la complessità di un evento come la lettura delle carte da un punto di vista scientifico. Ho persino pensato di scrivere un saggio corredato da esperienze personali, il contribuito dei clienti, di partire così… Poi, però, tra una stesura e l’altra sono stata assalita dalla storia di India, di Leo, e mi sono sentita trasportare verso una trama e, dunque, verso la forma romanzo».
Dici che dietro i tarocchi c’è un valore antropologico, scientifico. Proviamo a raccontarlo?
«Dei tarocchi, molti hanno un’immagine esoterica, un’idea sbagliata, o non sanno come funzionano. In Chiedi se vive o se muore, la protagonista, India, è una cartomante e utilizza il mazzo di tarocchi – gli arcani – come una sorta di alfabeto, di luogo di suggestioni e simboli, e lo adopera tanto per narrare quelle che sono le riflessioni sulla sua storia d’amore con Leo, quanto per parlare degli altri personaggi, delle persone a cui ha letto le carte. Il metodo di India è un metodo parzialmente scettico. Si lascia coinvolgere, è bravissima a leggere il futuro degli altri, ha una visione doppia che mi appartiene molto. Si domanda cosa può succedere quando ci si mette a fare i tarocchi a qualcun altro. La loro natura scientifica sta nel fatto che, ancora oggi, i tarocchi vengono utilizzati – in alcuni casi – come base della psicanalisi. Vi sono tantissimi punti tangenti con questo dialogo su simboli, memorie, ricordi, un dialogo creativo e trasformativo. Le carte hanno la stessa funzione. Bisogna evitare di appiattirle a una divinazione o a un qualcosa di soltanto scientifico. Spesso i tarocchi vanno a intervenire su questioni irriducibili dell’uomo, quindi, in un certo senso, affrontano il discorso sulla vita non solo legato all’occhio chirurgico di causa-effetto, ma aiutano a portare avanti un’immersione profonda. Hanno un’aura sacrale che crea questo senso di meraviglia, di mistero, che è profondamente funzionale a riflettere su di sé e sull’ambiente in cui ci si muove. Come avrai capito, si tratta di un gioco: le carte funzionano, hanno la principale funzione dell’auto-riflessione».
In che maniera i tarocchi diventano utili alla scrittura di un romanzo come Chiedi se vive o se muore?
«Ho spesso utilizzato i tarocchi per scrivere. Durante la stesura del romanzo precedente, interrogavo le carte ogni mattina e così mettevo insieme un po’ tutti i tasselli. Le carte offrono questa possibilità, molti le adoperano come strumento di scrittura perché hanno delle immagini, dei simboli, spesso parlano sia della tua storia personale – perché in una carta puoi identificarti, puoi vedere episodi della tua stessa vita – sia di tutto quell’ecosistema storico, culturale che le ha create. Ti faccio un esempio che mi è piuttosto caro: nella carta del matto, la numero zero, c’è una persona che si considera impazzita, che cammina da sola con un fagotto sulla spalla e, immersa in questo mondo un po’ brullo, si avvia verso un precipizio. Dentro una carta di questo tipo puoi scorgere, da un lato, un’esperienza personale – io quando studiavo i tarocchi ci vedevo, ad esempio, la me bambina che spesso e volentieri tentava di scappare di casa nello stesso modo, con un sacchetto sulla spalla – dall’altro, quella stessa carta può parlarti di simboli che hanno a che fare con i reietti della società, persone che si incamminano in un ambiente che non conoscono. Ogni carta conserva una storia sia culturale sia personale. I tarocchi hanno questa forte forza simbolica, ti aiutano molto, perché hanno a che fare con la parola, con la suggestione poetica, le carte sono passato, presente e futuro contemporaneamente, come i racconti. Sono molto utili, molto funzionali, anche al blocco dello scrittore. Non serve sapere il significato delle carte, anche solo lasciarsi ispirare, guidare ai simboli che richiamano».
In Chiedi se vive o se muore adoperi i tarocchi per parlare di tematiche molto attuali e sentite soprattutto tra i giovani: violenza, sopraffazione, amore tossico. Come si può parlare di questi argomenti legandoli alle carte, e come si scrive di certi temi?
«Il tema della violenza è un qualcosa che mi tira molto. Ognuno ha delle tematiche di cui continua a scrivere da tutta una vita e questa è la mia. Ho riflettuto tanto su come scriverne. Ultimamente ho letto un libro che ho molto apprezzato, Come dividere una pesca, che propone una meta-riflessione sul tema della violenza, della sopraffazione. Chi scrive si chiede se non sia eccessivo bloccarsi sulla violenza, a chi e a cosa può essere utile un discorso di questo tipo? Credo che quando si toccano certi argomenti sia importante non indugiare su un tipo di narrazione che è quello della subalternità. Spesso le vittime hanno bisogno di essere salvate dalla figura della vittima, le vittime che sono tali odiano l’esperienza della passività, e io ho cercato di rendere India proprio qualcuno che prova a togliersi questa etichetta. Lei non vuole essere una vittima, in molti casi prova a scavare nella violenza che ha subito e prova a inventarsi storie, prova a recuperare un potere, una possibilità di azione, auto-narrandosi – talvolta – come la cattiva della situazione, rendendosi tale. Vuole essere un parte attiva della sua storia, della sua violenza. Una cosa odiosa della violenza è proprio questo senso di impotenza. Spesso e volentieri le donne sono la tela su cui si sfogano le violenze sociali, succede anche nell’arte, nella scrittura, basti pensare che Hitchcock diceva che per rendere i film più coinvolgenti forse non si torturano abbastanza le donne. Io invece volevo dare più forza a chi viene descritto come oggetto di violenza e non come soggetto».
In tal senso, sento di dirti che lo hai fatto anche da un punto di vista stilistico perché, tra una sorta di flusso di coscienza e l’utilizzo della seconda persona singolare, questa esperienza di lettura è super immersiva…
«India ha in sé molta rabbia, soprattutto all’inizio del libro. Mi sono accorta che il suo personaggio subisce una trasformazione durante la narrazione. In principio è quasi eccessiva, è un personaggio molto doloroso, è ferita. India è l’incarnazione della donna che combatte la passività e anche nello stile ho provato a rendere questo suo digrignare i denti, lei ha il respiro della persona rabbiosa. Nell’idea della donna arrabbiata c’è qualcosa di politico, spesso e volentieri subiamo, nella scrittura letteraria moderna, dei personaggi femminili un po’ piatti, semplici oggetti di desiderio, donne tristi e afflitte. Nella rabbia, invece, c’è qualcosa di profondamente attivo e, soprattutto, anti-femminile. La donna che si arrabbia non è attraente, viene vista come folle, mentre la società vuole la donna sempre educata, la brava ragazza. Dare voce a un personaggio femminile che tutto è tranne che educata e composta, che ha dei momenti di irrazionalità, ha un valore politico. La rabbia se direzionata è utile a tante. La rabbia femminile viene spesso rappresentata come catartica e, come la catarsi, nella sua rappresentazione artistica, si libera, si rende innocua, sparisce anche la ragione che l’ha incendiata. Spesso, al di fuori della letteratura, sarebbe bene che questa rabbia che tutte proviamo fosse indirizzata non solo verso noi stesse, come invece fa India, ma resa utilizzabile anche in maniera creativa, dando vita a soluzioni che possano renderla funzionale».
Prima di chiudere: in che modo ti sei avvicinata ai tarocchi? Esiste una carta da cui ti senti rappresentata?
«Ho sentito parlare di tarocchi sin da piccolissima. Penso sia un’esperienza che in molti in Italia hanno ma di cui si discute poco. Le mie donne di famiglia, d’estate, si recavano in visita da una medium, la quale adoperava i tarocchi per veicolare i propri messaggi. Ricordo, con senso quasi perturbante, il momento in cui tornavano a casa e si raccontavano sottovoce. Io e la mia sorella gemella ci nascondevamo e provavamo a ricostruire cosa si stessero dicendo, ricordo il mistero, il sentimento di nascondimento che le pervadeva, perché al farsi leggere le carte vi era connesso un senso di peccato. In seguito, ho iniziato a studiare i tarocchi autonomamente, a sedici anni, in modo molto poco poetico: volevo imparare e ho studiato. Il primo mazzo, da adulta, l’ho incontrato in maniera un po’ magica. Ero a Bologna, dove ho vissuto per tanti anni, e passavo davanti a un negozio di antiquariato dove ho incrociato questo mazzo bellissimo in vetrina, un mazzo storico. Io non sono una che spende molto, che si regala cose, così, anche se affascinata, ho tirato dritto. La notte, però, ho sognato quelle carte, di tornare a prenderle, e avevo una gran fretta. Ho sognato di correre verso quella vetrina e di mettermele in tasca, cosa che ho fatto subito il giorno successivo. Per quel che riguarda, invece, la carta dei tarocchi che mi rappresenta, ci sono alcune persone che hanno un’usanza bellissima, ossia pescare ogni giorno dal mazzo e farsi ispirare da una carta, incarnandone l’energia quotidianamente. La mia carta di nascita, quella che viene fuori da una somma particolare del proprio compleanno, è il sole, che significa luce, chiarezza, svelare quello che è in ombra. Oggi mi sento rappresentata dalla carta della torre, la carta della distruzione, di un qualcosa che deve crollare per dar luce a qualcosa altro, vedere cosa rimane in piedi quando questo grande crollo sarà terminato».