Scrittore, giornalista e traduttore, Thomas De Quincey nasce il 15 agosto del 1785 nei dintorni di Manchester. Inserendosi a pieno titolo nella corrente romantica dell’Inghilterra di quel tempo, sarà molto amico di altri straordinari autori come Coleridge e Wordsworth, anticipando con il suo testo più famoso, Le confessioni di un mangiatore d’oppio, le tensioni decadenti che si svilupperanno successivamente in Francia.
Ribelle e girovago in gioventù, figlio di un padre liberale e modesto autore nonché commerciante di successo nel settore dei tessuti, De Quincey erediterà da lui la salute cagionevole (fun fact: era alto poco più di un metro e mezzo) che lo spingerà ad assumere oppio per calmare le proprie nevralgie e i continui mal di denti. Negli anni degli studi universitari a Oxford, questa dipendenza diventerà un vero e proprio vizio che lo tormenterà per tutta la vita e che, tuttavia, lo renderà anche famoso: le sue esperienze intime e le visioni causate dall’assunzione dell’oppio convergeranno in una narrazione autobiografica (inizialmente anonima) a puntate sul London Magazine nel 1821 e, successivamente, in un volume. Si tratterà proprio del libro Le confessioni di un mangiatore d’oppio (alcune traduzioni, come quella di Garzanti, portano il titolo Le confessioni di un oppiomane).
Tipicamente romantico – e dunque languido e sognante nella descrizione della sua dipendenza – De Quincey non scriverà un testo dal carattere ammonitore o moralistico (anche se nelle prime battute ammette gli stati depressivi possibili) anzi, tutto il contrario, tant’è che una delle critiche più comuni alle sue Confessioni contesterà la nota sensuale che l’autore affida al consumo del laudano: il linguaggio evocativo sposta l’attenzione del lettore su un piano più decadentista che patologico, non c’è traccia di condanna o autocondanna, piuttosto una passione chiaramente ossessiva quanto raffinata.
Ero necessariamente ignorante dell’intera arte e del mistero dell’assunzione di oppio: e, quello che ho preso, l’ho preso sotto ogni svantaggio. Ma l’ho preso: – e in un’ora, oh! Cieli! Che disgusto! Che sollevamento, dal più profondo, dello spirito interiore! Che apocalisse del mondo dentro di me! Che le mie pene fossero svanite, era ormai una cosa da poco ai miei occhi: – questo effetto negativo era inghiottito nell’immensità di quegli effetti positivi che mi si erano aperti davanti – nell’abisso del godimento divino così improvvisamente rivelato. (Le confessioni, sezione I piaceri dell’oppio)
Originariamente il testo era organizzato in questa maniera: una prima parte esordiva con una nota diretta al lettore, nota che presentava i suoi anni giovanili e adolescenziali, una sorta di prequel a ciò che sarebbe stato poi l’evolversi della sua vita; la seconda parte, divisa a sua volta in tre sezioni, I piaceri dell’oppio, Introduzione ai dolori dell’oppio e I dolori dell’oppio, entrava nel vivo della dipendenza, dei suoi effetti, delle visioni.
A mio avviso, le pagine più incredibili sono quelle dedicate alle considerazioni appassionate dell’autore circa il consumo della droga: si percepisce chiaramente quanto lui veda l’oppio quasi come una favolosa scoperta, un sollievo dai problemi della vita (un sollievo però fasullo, perché la sua dipendenza scatenerà un circolo vizioso senza fine che lo porterà a indebitarsi e a cambiare spesso residenza), un catalizzatore che gli permetterà non solo di uscire dall’anonimato, ma anche di diventare figura quasi leggendaria per tutti gli altri scrittori della sua epoca.
Mi sentivo, come per la prima volta, lontano, estraneo ai tumulti della vita: il clamore, la febbre, la lotta eran sospesi; una sosta era concessa alle segrete oppressioni del cuore…. una specie di giorno festivo, una specie di tregua agli umani travagli. Le speranze, infioranti i sentieri della vita, si fondevano con la pace propria della tomba; i moti del mio intelletto erano instancabili come i cieli, ma tutte le angosce si placavano in una calma alcionia; su tutto regnava una tranquillità, non frutto d’inerzia, ma risultato d’un equilibrio di forze contrarie ed eguali; infinita energia, infinito riposo.
Una curiosità infatti: De Quincey deve essere stato così convincente che molti intellettuali cominceranno a fare uso di oppio a seguito della lettura del suo libro, più per imitare il suo stile di vita che per vera e propria necessità “medica”. Pensiamo a Baudelaire: I paradisi artificiali (1861) contiene una vera e propria recensione, per la prima volta adattata e tradotta in francese, proprio del libro di De Quincey.
Grazie anche agli scrittori francesi, la droga e l’oppio in particolare diventeranno veicoli imprescindibili per la creazione artistica: le visioni oniriche indotte dal consumo di oppio e hashish stimoleranno la produzione poetica e contribuiranno in massiccia parte a formare il mito del “poeta maledetto”. I francesi però non furono gli unici a subire il fascino de Le confessioni: anche Edgar Allan Poe attingerà dal testo ispirazione per i suoi racconti (uno dei più belli, La lettera rubata, e La caduta della Casa degli Usher), dalla prosa cupa e appassionata di De Quincey, dalla sua evidente erudizione.
A prescindere dal valore letterario innegabile dell’opera e anche dal gusto del singolo lettore, è indubbio che Le confessioni abbiano aperto una strada nella ricerca del significato artistico di una produzione di qualsiasi tipo – libri, dipinti, sculture, fotografie – se realizzata sotto effetto di una droga: la relazione tra sogno e realtà, tra allucinazione ed effettivo genio dell’artista, sarà tematica centrale negli anni successivi, e tanto gli scrittori eleggeranno l’oppio o la tintura di laudano come vera e propria Musa, quanto gli scienziati e i medici cominceranno ad analizzare i suoi effetti sia curativi che distruttivi, riprendendo la concezione di “paradiso artificiale” tanto cara a Baudelaire.
Ne consiglio la lettura non solo per la bellezza della prosa ma anche per il tono confidenziale dell’autore. Successivamente si può recuperare anche il romanzo Suspiria del profundis, che non eguagliò il successo clamoroso de Le confessioni, ma che ispirò niente meno che Dario Argento (se siete suoi fan, questo libro è imprescindibile) per la realizzazione della trilogia Le tre madri.