Quante volte durante queste settimane ci siamo lamentati del caldo? Noi che magari lavoriamo in freschi uffici o rientriamo in case con ventilatori o condizionatori, balconi da cui far entrare liberamente aria. Ecco, ora immaginate di essere per la quasi totalità della giornata in una stanza di pochissimi metri quadrati, da condividere con altri, con delle finestre schermate che non lasciano passare aria, senza ventilatori né frigoriferi e senza possibilità di farsi una doccia per avere sollievo se non in determinati momenti del giorno. Questa è una tipica giornata in carcere nei mesi estivi, durante i quali vivere dignitosamente diventa ancor di più un’utopia, anche se basterebbero piccoli accorgimenti a rendere quegli ambienti quantomeno più vivibili.
Come ha ricordato pochi giorni fa Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, che ogni anno ripropone con insistenza un così importante tema, «ci stupiamo che arrivi il caldo, eppure non si tratta di una calamità […] Si potrebbe prevedere dall’inverno e avere gli strumenti per fronteggiarlo. E invece ci ritroviamo a ripetere che non ci sono ventilatori, non c’è un frigorifero in ogni cella».
Basti pensare che gli istituti sono perlopiù enormi costruzioni di cemento su cui batte costantemente il sole e in più della metà tra quelli visitati da Antigone ci sono schermature e reti alle finestre che non consentono il passaggio dell’aria, mentre nel 56% delle carceri manca la doccia in cella, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 prevedesse la loro introduzione obbligatoria entro il 2005. Si aggiunga poi che a partire del 2020 molte sezioni delle carceri sono ripiombate in un regime detentivo che non prevede l’apertura delle celle durante il giorno o addirittura per cui vanno chiusi i blindi di notte.
Alle difficoltà pratiche dovute all’angustia degli spazi condivisi da troppi, fino a non avere aria, si aggiungono quelle riguardanti l’ozio in cui le persone detenute cadono in questi caldi mesi, durante i quali le attività trattamentali e quelle ricreative subiscono una battuta d’arresto. Non a caso, l’estate è il periodo in cui si registrano più suicidi in assoluto: nel 2022, 16 nei soli trentuno giorni agostani. E quest’anno cosa ci aspetta?
Dopo circa sette mesi sono già 42 le persone che hanno deciso di togliersi la vita tra quelle mura, troppo spesse per farci udire le loro grida d’aiuto. In soli cinque giorni, ben due detenuti si sono uccisi nel carcere di San Vittore, che è emblema, tra tanti, del malfunzionamento sistemico dell’istituzione carceraria, presentando anche alcuni casi come la presenza di novantenni o persone non deambulanti che hanno necessità di cura e assistenza quotidiana.
Nonostante la tossica narrazione portata avanti dai nostri rappresentanti politici prima, e dall’opinione pubblica poi, stare in carcere non è una vacanza come molti credono. Ancor meno per chi si trova in condizioni di fragilità, impossibili da affrontare adeguatamente per il luogo patogeno e di sofferenza in cui insistono, oltre che per la mancanza cronica di personale.
Chiaramente, le criticità di cui parliamo sono soltanto estremizzate nei mesi estivi, ma esse rappresentano dei problemi strutturali all’interno dell’istituzione carceraria: dagli spazi ridotti alla carenza di condizioni igienico-sanitarie adeguate, dalla scarsa attenzione alla salute mentale fino ad arrivare alla medicalizzazione di tutte le patologie psichiche, senza il necessario supporto psicologico. Ma i dati ci raccontano anche altro: abbandono, dispersione dei contatti con i detenuti, solitudine, pochissime possibilità di inserimento lavorativo o di attività all’esterno.
Si tratta di questioni che necessiterebbero di un intervento strutturale e innanzitutto di investimenti che non riguardino la costruzione di nuove carceri – per rendere ordinario un utilizzo della detenzione che in realtà non lo è – ma nella messa in sicurezza degli istituti già esistenti, che sia accompagnata da un ripensamento complessivo del modo di intendere la pena, che non sia tortura, supplizio, sacrificio ulteriore rispetto a quello già derivante dalla limitazione della propria libertà personale.
Per far fronte nell’immediato alla situazione in carcere, Antigone e le altre realtà del settore propongono un incremento delle telefonate ai familiari per avere la possibilità di sentirsi meno soli, la dotazione di ventilatori e frigoriferi, la possibilità di usufruire di un regime delle celle aperte per uscire dall’ozio e dalla calura della propria stanza.
Non si tratta di interventi che possono essere considerati risolutivi, eppure non riusciamo ad aspettarci neppure questo dalla nostra classe politica, figurarsi un intervento strutturale che presuppone un interesse ai diritti e alla dignità delle persone detenute, che invece continuano a essere viste solo come uno scarto della società, qualcosa di cui parlare per fare propaganda.