Da sempre sono esistite e continuano a esistere due categorie di giornalisti: i Giornalisti Giornalisti e i giornalisti impiegati. La prima è una categoria così ristretta, così povera, così “abusiva”, senza prospettiva di carriera, che non fa notizia, soprattutto oggi. La seconda, asservita al potere dominante, è il giornalismo carrieristico, quello dello scoop e del gossip, quello dell’esaltazione del mostro e della sua redenzione.
Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere Giornalista è qualcosa di altro. È sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato.
A pronunciare queste parole, delineando un quadro più che reale delle ragioni di un’informazione malata, fu Giancarlo Siani, ammazzato dalla camorra il 23 settembre di circa trentotto anni fa. Parole, le sue, quanto più attuali nei tempi che viviamo: da un lato, un sistema di gruppi editoriali asserviti a grandi realtà imprenditoriali e al potere politico di turno; dall’altro, professionisti schierati dalla parte della verità attraverso un giornalismo d’inchiesta capace di far conoscere ragioni e realtà che determinano ingiustizie, disuguaglianze, emarginazioni, che favoriscono commistioni tra politica e criminalità, corruzione e arricchimenti di pochi a danno della maggioranza sempre più impoverita e privata dei propri diritti.
Sono oltre duecentocinquanta i giornalisti sotto vigilanza, di cui ventidue affidati alla scorta, che rischiano la propria incolumità per esercitare il loro mestiere. Per fare ciò che ci si aspetterebbe dall’intera categoria: approfondire e raccontare fatti, far conoscere verità scomode a certi settori della finanza, dell’imprenditoria, della politica e del malaffare, dare voce a storie di emarginazione e di drammi personali.
Un modello di informazione che dovrebbe rientrare nella normalità e che purtroppo diventa sempre più sconosciuto persino in quella che si definisce rete pubblica pagata dai contribuenti, anch’essa in mano a una spartizione della politica che da sempre non solo la occupa attraverso nomine che rispecchiano il colore del governo di turno ma che detta gradimenti o meno, ignorando competenze e professionalità e valorizzando unicamente quelle figure con grandi capacità di adattamento, soprattutto di trasformarsi da conduttori a interlocutori di parte pretendendo l’allineamento al pensiero unico.
Uno su tutti l’autore di quei volumi tipiche strenne natalizie regalate come elementi di librerie-arredo. Ma certamente non l’unico cui va riconosciuta il trasloco della terza camera del Paese – sede tra l’altro della storica firma del patto con gli italiani del suo maggiore sponsor – dagli studi televisivi alla masseria pugliese di sua proprietà che ha ospitato di recente l’intero governo, una fedeltà incondizionata garanzia di lunga vita professionale.
C’è poi chi, mettendo la faccia su tutto senza mai imporre la propria presenza, ha raccontato storie di vita e di riscatto, ma anche di miseria senza redenzione, di uomini e donne rassegnati alla povertà, con una chiave di lettura, però, basata sulla solidarietà e il principio che chi meno ha, più aiuta, come ben osserva Andrea Fagioli di Avvenire riferendosi all’esclusione dell’ottimo Domenico Iannacone autore prima de I dieci comandamenti e poi di Io che ci faccio qui. Un’informazione ritenuta dai vertici RAI sgradita a certa politica che evidentemente non apprezza troppo il racconto di realtà ritenute invece di interesse per una platea affamata di verità.
È di questi giorni, infine, la raffigurazione di un altro modello di giornalismo, quello snob, in verità sempre esistito ma mai così sfacciato al punto da far indignare persino i giornalisti del quotidiano di riferimento, proprietà del figlio del protagonista autore di un articolo che nessun direttore di testata con un minimo di dignità professionale avrebbe mai pubblicato. Un contenuto che definire classista e di pessimo gusto sarebbe riduttivo, ma ad Alain Elkann – in viaggio su un treno diretto a Foggia leggendo Financial Times, New York Times e La Recherche du temps perdu di Marcel Proust con cartella in cuoio marrone e penna stilografica, scandalizzato dall’abbigliamento di alcuni giovani e dal contenuto dei loro discorsi – comprensibilmente, per la serie tengo famiglia, il direttore non ha potuto dire di no. Il padre è sempre il padre del figlio padrone.
La sudditanza dell’informazione al potere politico non è, però, prerogativa soltanto del nostro amato Paese. Altrove accade anche di peggio, come nel caso di Julian Assange detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, dall’aprile di quattro anni fa, sulla base della richiesta di estradizione degli Stati Uniti relativamente ad accuse che derivano dalla pubblicazione di documenti segreti anche sui possibili crimini di guerra commessi dalle forze armate americane. La diffusione del suo lavoro di inchiesta non può tradursi nella privazione della libertà con il timore che, anche in caso di estradizione, si possa arrivare – secondo i movimenti che a livello internazionale ne richiedono la liberazione – a gravi violazioni dei diritti umani, con le condizioni di detenzione che potrebbero equivalere a tortura e altri maltrattamenti, come un prolungato isolamento.
In quanto alla detenzione dei giornalisti non si presentano giorni tranquilli neanche nella nostra nazione. A pensarci è stato l’ormai fuori controllo Ministro della Giustizia Nordio con il bavaglio all’informazione sulle intercettazioni. C’era da aspettarselo e puntuale il guardasigilli ha mantenuto la promessa. Ma è solo l’inizio.