Li chiamano incidenti sul lavoro e, invece, sono omicidi a regola d’arte. Di Stato, si intende. Soltanto nei primi tre mesi dell’anno, in Italia, sono morte 196 persone: a fotografare la situazione è il primo bollettino trimestrale reso noto dall’INAIL, un dato che è in aumento del 3.7% rispetto allo stesso periodo del 2022, quando le vittime furono 189. Un dato che, purtroppo, è già vecchio.
Basta aprire quotidianamente i giornali per leggere che in media, nel nostro Paese, ogni giorno muoiono tre operai. Una statistica che già a giugno, scrive l’Unione Sindacale di Base, è stata quasi raddoppiata con circa cinque morti al giorno per un totale di 389 vittime durante il lavoro e 112 in itinere da gennaio a oggi. 501 decessi totali a cui sappiamo si andranno ad aggiungere i tanti che stiamo contando in queste settimane, ufficialmente a causa del caldo.
Perché se è vero che di caldo si muore – a certi livelli di umidità il sistema che regola la temperatura smette di funzionare e il nostro corpo, incapace di sudare, letteralmente cuoce – è ancor più vero che a uccidere i tanti, troppi, che cadono nell’esercizio delle loro funzioni è un sistema assassino che, ancora, costringe un operaio a lavorare sotto il sole cocente o, addirittura, a lavorare a 75 anni, quando dovrebbe essere ormai in pensione. È la storia di un uomo colto da un malore nel cantiere per la realizzazione dell’hub logistico di Amazon a Jesi, in provincia di Ancona. È la storia di uomo che questo Stato non ha considerato un uomo.
Rispetto al 2022, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ha rilevato che i morti sono aumentati soprattutto al Nord-Ovest (+22,45%) e in particolare in Piemonte, dove le vittime nei primi tre mesi dell’anno sono salite da 12 a 21. I morti sono aumentati anche nelle regioni del Centro (+6,67%), in particolare in Umbria, nelle Marche e nel Lazio, mentre c’è stato un calo significativo in Toscana, non tale, comunque, da non far presagire un anno che passerà alla storia come uno dei più letali per chi, uscito di casa per assicurarsi un tozzo di pane, non vi ha più fatto ritorno.
Già nel 2022, i morti sul lavoro avevano superato le mille unità. Mille persone, dunque, non erano sopravvissute alla fatica, molto spesso perché le condizioni in cui avevano svolto le proprie mansioni non si erano rivelate sicure e i datori di lavoro avevano approfittato della mancanza di controlli: turni logoranti, attrezzature obsolete, disprezzo di ogni norma di cautela avevano causato anche incidenti in itinere. Soprattutto, avevano accresciuto i numeri di una mattanza a cui proprio non si vuole porre fine. Nonostante quel dato, però, qualcuno aveva esultato pensando che, rispetto al 2021, le cose fossero andate meglio. E, invece, non aveva valutato che nell’anno precedente erano state numerosissime le denunce per morti da Covid-19.
E oggi? Qual è la pandemia a cui è dovuta questa nuova strage? Potremmo rispondere con una sola parola: profitto. Se non si vivesse in una società come la nostra, che ha come unico fine quello del guadagno, della produttività; se non si vivesse di soli doveri senza diritti e se, in qualche modo, sapessimo distinguerli abbastanza da alzare la voce, abbastanza da fermare la macchina del progresso e scendere in piazza – anche se il Ministro Salvini ritiene che non si debba scioperare con 40 gradi. Lavorare sì, che quello non fa mai male – ci sforzeremmo di trovare una motivazione diversa, meno scontata. A volte, però, la realtà è talmente reale da diventare persino banale.
Tagli, schiavismo, caporalato. Sono solo alcuni dei motivi per i quali l’Italia è il Paese del precariato e delle morti bianche. La certezza di nessun controllo, così come la certezza della non pena, poi, fanno il resto, con i datori di lavoro – che, ancora, e non a caso, chiamiamo padroni – che poco o nulla si concentrano sul rispetto delle norme di sicurezza a tutela dei propri dipendenti. Un giorno di servizio, quindi, per molti si trasforma nell’ultimo di una vita fatta di sacrifici e soprusi, di diritti negati, di un piatto in tavola da assicurare ai bambini la sera a qualsiasi costo, fosse anche il proprio sangue.
Umiliazioni e sfruttamento mietono vittime, una dopo l’altra, senza pietà alcuna: perché un morto si sostituisce senza remore, perché un altro morto, di fame, lo si trova piuttosto facilmente. E questo il capitalismo lo sa, ci ha costruito su tutta la sua storia, è l’essenza della sua ragion d’essere, linfa vitale per non sgretolarsi su se stesso. Ma non basta. Non basta mai. E, così, mentre nei cantieri o in fabbrica – dove si registrano i numeri più alti di morti sul lavoro – si continua a soccombere, la politica resta a guardare. La politica resta a guidare la mattanza.
Basti pensare che all’aumento dei cantieri degli ultimi anni – tra bonus edilizia e primi fondi del PNRR – non è corrisposto un adeguato aumento dei controlli sulle condizioni di sicurezza. Che le più recenti assunzioni di ispettori del lavoro non fossero sufficienti, infatti, lo si sapeva già, considerato anche che i compiti affidati a queste figure si sono moltiplicati, comprendendo pure una parte delle competenze prima affidate alle aziende sanitarie territoriali, oltre alle solite ispezioni sulla regolarità dei contratti, il pagamento dei contributi o delle assicurazioni obbligatorie. Eppure, né i governi precedenti né quello attuale hanno pensato di dover intervenire. Perché mai, è il gioco delle parti: io ti voto e tu fai sì che io possa tornare a votarti.
Ancora una volta, i dati parlano chiaro: in Italia, in media, l’80% delle aziende controllate non risulta in regola, spesso a causa dell’utilizzo di attrezzature obsolete che possono rivelarsi pericolose e al disinteresse nell’investire per il rispetto delle normative sulla sicurezza. E non è possibile ignorare o non applicare questo dato anche a settori diversi, fuori dalle mura della fabbrica, come quello agricolo ad esempio, dove i contratti e/o i documenti in regola sono perlopiù assenti, soprattutto perché a essere assunti per la semina o per i raccolti sono spesso migranti e disperati sfruttati dalla malavita nostrana. Uomini e donne che per lo Stato italiano nemmeno esistono e che, quindi, per la maggiore, muoiono nel silenzio generale di chi sa che è meglio farli sparire piuttosto che denunciarne la scomparsa. Storie senza nome che probabilmente non si conosceranno mai.
Non a caso, uno dei più grandi nemici, se non il principale avversario della sicurezza degli operai, è proprio il lavoro nero, quello non dichiarato che, quindi, nemmeno apparentemente è tenuto a preoccuparsi di garantire una qualche forma di salvaguardia della persona impiegata. Una falla enorme del nostro sistema che impedisce una stima concreta delle vittime coinvolte, al di là dei dati resi noti, e che la politica non combatte ma avalla. Figuriamoci certa politica.
Non ci stancheremo mai di ripetere che tutto ciò che servirebbe è la pretesa di controlli seri e concreti, controlli che smettano di garantire immunità, che vedano finire dietro le sbarre quei padroni che sfruttano e infrangono le regole, che finalmente lascino il lavoratore libero di dire no, certo che un altro come lui non accetterà passivamente, ma pretenderà di più, diritti e rispetto. Perché il lavoro deve nobilitare, non uccidere l’uomo.