Sembra sempre difficile parlare di salute mentale. Lo stigma che accompagna chiunque dichiari di far ricorso alle cure – che si tratti di percorsi di psicoterapia o di assunzione di farmaci – spinge, spesso, le persone a nascondere i propri disagi. È una questione perlopiù culturale, seppur la politica abbia fatto sempre troppo poco per normalizzare il dibattito e concedere un equo accesso ai servizi del SNN ai cittadini italiani.
Dall’avvento della pandemia, però, qualcosa sembra cambiato e parlare di salute mentale non è più un tabù come prima del famigerato lockdown. Nelle generazioni più giovani, soprattutto, il tema è molto sentito. La giornalista Jessica Mariana Masucci ha indagato il rapporto del nostro Paese con il tema nel suo Il fronte psichico (edito da nottetempo), un report accuratissimo sul diritto che ciascuno ha di migliorare la propria salute mentale. L’abbiamo intervistata.
Il libro si apre con te che sostieni di aver dovuto affrontare il fantasma di Franco Basaglia. Scrivi: non siamo stati all’altezza della rivoluzione culturale che egli ha ispirato negli anni Settanta. Cosa intendi?
«La legislazione vigente è ancora quella della Riforma Basaglia, rimasta nel nostro ordinamento, che ha eliminato i manicomi civili, mentre per quelli giudiziari ci si è arrivati solo in anni più recenti. Tuttavia, non siamo stati all’altezza di applicarla ai pazienti e alle loro famiglie, neanche da un punto di vista culturale, di ridurre quel divario che ancora esiste nella società tra i pazienti psichiatrici – circa 7-800mila persone che entrano a contatto con il SSN per questioni di natura psichiatrica – e il resto della popolazione. Questo è un divario che, nonostante si stia riducendo grazie all’emersione del tema della salute mentale nella dimensione pubblica, di fatto ancora esiste».
La crisi economica di circa una decina di anni fa ha riportato in auge il tema della salute mentale. In che modo le due cose sono collegate?
«Mentre svolgevo le varie interviste con cui ho composto il libro, ritornava sempre questa data, nel 2012, o nel 2011, che sono gli anni in cui in Italia si è sentito più forte il peso della crisi globale economica e finanziaria iniziata dall’altra parte dell’Atlantico nel 2008. Il fatto che ritornasse di continuo mi ha permesso di prendere coscienza di quanto siano profonde le ferite che ci ha lasciato quel periodo. Le due cose sono collegate in modo diretto, come gli studiosi hanno rilevato nell’immediato, quindi con delle manifestazioni di ansia o depressione che possono arrivare fino a dei tentati suicidi o addirittura a dei suicidi, ma soprattutto è rimasta un’insicurezza di fondo a seguito di quella crisi. A questo aggiungerei un dato estremamente pratico: è in quegli anni che inizia il cronico sotto-finanziamento del SSN e dei servizi pubblici relativi alla salute mentale degli italiani. Noi dovremmo spendere, secondo gli esperti, in quanto Paese con un alto livello di reddito, il 10% del budget destinato alla sanità per la salute mentale. Il risultato è che, invece, siamo intorno al 3%, che è meno di quanto dovrebbero investire i Paesi a basso reddito».
Prima di affrontare l’argomento da un punto di vista politico, credo sia importante sottolinearne l’aspetto sociale. Parlare di salute mentale è sempre stato – e tuttora è – uno stigma che ha allontanato le persone da contesti di gruppo, a volte anche familiari. Come sottolinei, però, negli ultimi anni il tema ha avuto un forte impatto nel dibattito comune. A cosa credi sia dovuta questa importante accelerata e che ruolo ha giocato la pandemia in tal senso?
«La questione dell’emersione del tema nell’ambito del dibattito pubblico su più livelli – da quello politico ai social, fino alle cene tra amici – è dovuta a diversi fattori, alcuni preesistenti la pandemia. Tutto è ancora in divenire. C’erano, sì, dei piccoli segnali, ma a questi fuocherelli la pandemia ha acceso un fuoco molto più grande, se non altro perché – ovviamente – lo stare in lockdown ha fatto emergere una serie di malesseri che ha alimentato il discorso pubblico, a volte in modo sensazionalistico, altre in modo corretto. La pandemia è stata un fortissimo catalizzatore».
Altro capitolo molto interessante del libro riguarda il mondo dei social. È indiscutibile – e i dati che proponi lo dimostrano – che quello della salute mentale è un tema che i giovani sentono più vicino alle proprie esigenze più di qualsiasi altra generazione precedente. I social, dunque, sono un veicolo importante per costruire questo tipo di consapevolezza o rischiano di banalizzare, appiattire il dibattito?
«Non è questione di quale canale, ma di chi sta parlando, di quale messaggio veicola. Il modo in cui se ne parla deve essere non superficiale e, certamente, non banale. Allo stesso tempo, le generazioni più giovani hanno una maggiore propensione all’apertura sul tema rispetto a quelle precedenti, parlano molto più facilmente di psicoterapia, sono molto più serene nell’affrontare l’argomento e hanno meno paura di essere giudicate. Il fatto che lo facciano sui social è relativo, è un ambiente come lo è l’università. Il punto è non ridurre tutto a uno slogan, e bisogna farci attenzione».
I numeri di cui scrivi ne Il fronte psichico, tra utenti psichiatrici e l’utilizzo sempre crescente di psicofarmaci, che ritratto danno del nostro Paese?
«Partiamo col dire che le fonti per fare questo ritratto sono essenzialmente due. Una è il rapporto sulla salute mentale che stila ogni anno il Ministero della Salute in cui vi sono riportati tutti i dati di quella che è l’Italia, seppur riferiti al sottoinsieme di coloro che hanno avuto a che fare con il SSN per problemi di salute mentale. In questo sottoinsieme di 7-800mila persone possono esserci sia persone che si recano una o due volte presso un centro di salute mentale per un colloquio psicologico, quanto chi affronta dei percorsi più complessi, duraturi, o addirittura vive in strutture dove si ricoverano persone con questioni psichiatriche. Sono numeri che riguardano una minoranza: ci sono, infatti, uomini e donne con problemi anche gravi che non rientrano in questo sottoinsieme perché non si sono affidati ai servizi del SSN o, molto più probabilmente, hanno rinunciato alle cure. L’altra fonte riguarda gli psicofarmaci e qui il dato può essere esteso a tutta la popolazione maggiorenne. Parlo del report che stila l’AIFA sul rapporto sul consumo di farmaci, soprattutto le benzodiazepine e gli antidepressivi. Per entrambe, quello che emerge è l’inappropriatezza prescrittiva, ossia al di fuori di un ecosistema di cura che comprende la psicoterapia o un controllo periodico. Spesso, infatti, questi farmaci vengono prescritti da altre categorie di medici, che specialisti della salute mentale non sono, e finiscono per essere fuori controllo, come ad esempio nel caso delle benzodiazepine con cui andrebbero affrontati dei cicli molto brevi di cura e, invece, vengono somministrate per tantissimo tempo, e questo è un utilizzo inappropriato».
Tu stessa sostieni che lo Stato sembra farsi carico solo dei disturbi di grave entità. E gli altri? In che modo hanno accesso a cure e sostegno? Sei originaria della Campania – come noi – e ad esempio la nostra Regione è una di quelle che investe meno in tal senso.
«Bella domanda. Molto spesso chi non ha possibilità non si cura. C’è da dire, però, che con la pandemia molti psicologi hanno adottato un servizio di supporto psicologico online, da remoto, e in alcuni casi i prezzi sono inferiori. Ci sono anche degli sportelli di ascolto che tarano i costi sulla disponibilità del paziente, ma certo sono di nicchia».
La politica sembra riscoprire l’importanza della salute mentale. Ricordiamo anche il recente dibattito attorno al bonus psicologo. Si tratta di mero opportunismo o anche tra i nostri parlamentari è cambiata la consapevolezza del problema?
«Da una parte c’è un’apertura culturale nei riguardi di questo tema, e quando un discorso prende così tanto piede nel dibattito pubblico appare inevitabilmente sul mercato elettorale e politico. I politici cercano di cavalcare le richieste e i bisogni del momento. Ma non vedo, dall’altra, una presa di consapevolezza della necessità reale di questo tema, al di là del bonus che serve a mettere una toppa in un determinato momento e nulla più. È strano, ad esempio, che su centinaia di parlamentari, o migliaia se allarghiamo la platea alle rappresentanze regionali o locali, non ci sia nessuno che affronti il tema facendo riferimento a un proprio percorso. E io non posso pensare che su centinaia, migliaia di politici nessuno si sia mai rivolto a uno psicoterapeuta o abbia mai preso uno psicofarmaco. C’è un’ipocrisia di fondo».
Il tuo libro interroga il tema della salute mentale anche in relazione al lavoro. Diverse aziende cominciano a proporre benefit come sedute con mental coach, eppure secondo te il problema è molto lontano dalla soluzione siccome, sostieni, riguarda solo le fasce più agiate e le grandi imprese. Cosa si può fare in merito?
«È un problema di tipo culturale. Bene che le imprese più privilegiate possano dare ai propri dipendenti benefit di questo tipo, però se i dipendenti continuano a permanere in uno stato di ansia o insistono ad attribuire al proprio lavoro un valore di malessere – perché le relazioni non sono delle migliori o i carichi di lavoro eccessivi, ecc. – probabilmente si è risolto poco. Stiamo comunque parlando della punta dell’iceberg, ci sono posti e luoghi di lavoro in cui il problema è fortissimo e non viene assolutamente affrontato. Nella stragrande maggioranza di piccole e medie imprese il tema non viene nemmeno menzionato».
L’ultima domanda è di carattere intimo: quanto è stato complesso gestire un lavoro di così grande portata, tra interviste ed esperienze personali o di campo? E parlo, ovviamente, da un punto di vista mentale e di stress. Cosa ti ha spinto in questa analisi?
«Si tratta del mio lavoro, è stato bello, appassionante, stimolante dedicarmi a un qualcosa di così ampio respiro e non soltanto alle ottomila battute di una rivista. Mi ha insegnato tanto di questo lavoro e del mio modo di lavorare. È stato, certo, un bello stress, non lo nego».