Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema. Si apre con queste parole l’ultima fatica letteraria di Marco Rovelli, Soffro, dunque siamo. E, ancor prima di proseguire, ci ritroviamo catapultati in un tempo che vorremmo lontano e un po’, in effetti, lo è. Un tempo da cui credevamo che saremmo usciti migliori, ma poi non è stato.
Fin dai primi giorni del lockdown prese a circolare questo slogan. Che, però, a distanza, pare più un auspicio che una realtà. I binari della cosiddetta normalità non sembrano essere stati scalfiti dall’emergenza pandemica, ma, semmai, rafforzati. […] I media stessi ce lo dicono ripetutamente: con la pandemia, è esploso il disagio psichico. Ma è stato generato o è stato innescato? Non sarà che è letteralmente esploso, e ciò che era già in attesa è affiorato in superficie con la sua terribile forza d’urto? Non sarà che questo varco temporale che è stata la pandemia ci ha permesso di gettare uno sguardo più profondo sulla natura del disagio psichico, su quanto esso appartenga costitutivamente al nostro tempo, e sul modo limitativo in cui di solito lo intendiamo?
Il libro, edito minimum fax, è la mappatura di un territorio che in questi anni sembra sempre più presente eppure mai realmente al centro di una discussione che miri ad accertarne le cause, ancor più a prevenirle e a lenirne le conseguenze. La depressione, si sa, è la malattia del ventunesimo secolo, ma la sensazione – spesso – è che ci si sia fermati a questo assunto, come si fosse accettato che così è e così deve essere.
La mappatura di Rovelli inizia con una deflagrazione, un rallentamento, un tempo che abbiamo chiamato sospeso e, invece, era solo perso. Andrà tutto bene, ve lo ricordate? È stato questo il mantra di quei mesi, settimane lunghe una vita in cui il mondo ci è parso muoversi lento, solitario, diverso. Il silenzio, che abbiamo cercato di coprire con canti e applausi, ha dilatato il tempo e ristretto lo spazio, incapace di fermare il primo e di ampliare il secondo, come fossimo in gabbia, lì dove ci siamo sentiti tutti, per la prima volta totalmente in balia di un destino incontrollabile. Controllati, invece, abbiamo imparato a convivere con noi stessi, chiusi tra le pareti delle nostre case, spesso di cartone o troppo strette, spesso grandi quanto il palmo di una mano violenta o vuote come le vite dalle quali abbiamo più volte cercato riparo. Nel lavoro, negli affetti, nei vizi, nelle emozioni negate. I nervi messi a dura prova. I nervi torturati da una pandemia, soprattutto dalla sua imprevedibilità.
Marco Rovelli muove la sua riflessione proprio da qui, da questa sensazione a cui numerosi studi hanno dato – o provato a dare – diverse spiegazioni. In un articolo pubblicato dal World Economic Forum nell’aprile del 2020, la psicologa belga Elke Van Hoof parla di lockdown come il più grande esperimento psicologico del mondo. Al momento della pubblicazione, le persone coinvolte dal fermi tutti erano circa 2.6 miliardi, un numero enorme che ha permesso di analizzare comportamenti e reazioni conseguenti all’isolamento forzato.
Negli stessi mesi – più precisamente a febbraio dello stesso anno, dunque ben prima che le misure di contenimento del contagio fossero applicate in buona parte dei Paesi europei – anche la rivista scientifica The Lancet pubblicava un’ampia sintesi di studi che documentavano l’impatto psicologico che il confinamento può significare. Tra quelli elencati, i sintomi più comuni risultavano sbalzi di umore, insonnia, stress, ansia, irritabilità, rabbia, esaurimento emotivo e depressione. Parole e stati d’animo con cui abbiamo imparato a familiarizzare senza, tuttavia, imparare a ricucirne trame e percorsi. Rintracciarne le cause.
E quell’isolamento, quello fisico del periodo pandemico e quello psicologico della vita prima e dopo l’esperienza del coronavirus, ha finito con il convincerci che il nostro disagio, il disagio psichico, la nostra sofferenza fossero un qualcosa di individuale anziché sociale. Rovelli ce lo ricorda senza pietà. E lo fa per spronarci al passo successivo, a quello che serve per mettere in discussione il tatcheriano insegnamento della società che non esiste perché esistono solo gli individui.
Per riattivare la politica – sostiene l’autore (già docente, cantautore, saggista) – bisogna ripartire dal ricordare la natura del nostro malessere. Per tale motivo, le voci di operatori, esperienze, testimonianze di vario tipo che, nelle pagine di Soffro, dunque siamo, raccontano ciò che non sappiamo più vedere perché assuefatti, sprovvisti degli strumenti utili a comprendere che la nostra sofferenza è, può e deve essere un dato politico, diventano un valore aggiunto a un’analisi che mira a farsi chiave di lettura di ciò che costituisce la genesi socio-relazionale dell’umano.
Il primo capitolo, non a caso, si intitola Individuo vs condividuo e si rifà a un concetto coniato in anni recenti in ambiti disciplinari diversi quali la biologia e l’antropologia. Alla base, appunto, c’è l’idea di imparare a leggere le singole forme di sofferenza come questioni sociali, correlate, e non come mere battaglie private. Siamo così perversamente abituati a pensarci quali entità isolate, piccoli astri, da dimenticare che è insieme che possiamo formare una costellazione. La società ipermoderna o neoliberale che dir si voglia, d’altronde, gioca proprio su questo, su una scala di valori imposta che supera l’umano: competizione, rivalità, imprendicariato per dirla con Silvio Lorusso. Ma tutto ciò – insiste Rovelli – è inumano e come tale va affrontato.
L’individuo stesso nasce da una relazione. È il noi a precedere l’io e non viceversa e, tuttavia, lo abbiamo dimenticato. Il risultato – ce lo dice anche Sarah Jaffe – è una solitudine che non è più individuale ma collettiva: il risultato di un mondo proiettato sul web e di condizioni di lavoro inaccettabili; del fallimento dei sindacati, di ritmi frenetici che ci rubano il tempo degli affetti, della socialità, della cura di sé. E meno tempo abbiamo, più distanti siamo, e più distanti siamo, più smettiamo di guardare all’altro con fare fraterno. L’altro è il nemico, il concorrente, colui che può rubarci il nulla che abbiamo costruito. Una dimensione che riguarda la sfera professionale, dunque il mondo degli adulti, ma anche quello dei più giovani.
Sono le nuove generazioni, infatti, a formarsi e deformarsi nella tanto acclamata buona scuola, quella che vuole l’istituzione scolastica più simile a un’azienda che a un luogo di crescita umana e culturale dove imparare a stare in società. Generazioni il cui incubo ricorrente è il fallimento, un’esperienza fondamentale per costruire il sé che oggi, invece, viene demonizzata e ridicolizzata. Chi fallisce, chi non è al passo, chi non riesce o, semplicemente, ha un ritmo diverso è scarto, rifiuto, nulla. Poco importa che l’asticella prestazionale sia sempre più alta: impossibile is nothing, ci dicono. Tutto è intorno a te. Just do it, fallo. Se non lo fai – o non sai come farlo – è finita. Il mito dell’auto-imprenditorialità che si accartoccia su se stesso. Nasce da qui l’angoscia esistenziale dei giorni nostri, quella per la quale i ragazzi devono farsi carico del proprio dolore e, come se non bastasse, delle fragilità di quegli adulti che, a loro volta, non hanno la capacità di guidarli.
Nasce da qui anche un altro fattore: l’estetica dell’ansia. Cosa significa? Significa riconoscere in quel buio, in quelle acque torbide in cui anneghiamo l’esistenza, qualcosa di bello, a suo modo piacevole. Non vogliamo venirne fuori. La sofferenza si fa sempre più un fattore privato, personale: il dolore è tutto qui, nella mia testa, qua dove qualcosa non funziona, è rotto. La risposta, dunque, non è imparare a nuotare, ma lasciarsi traghettare, spesso trascinare, dalla corrente, magari aggrappati a un salvagente che comunemente chiamiamo psicofarmaco.
Ridurre il disagio psichico a dato organico, infatti, ha come corollario la credenza che quel cervello guasto possa essere guarito – o non per forza – dalle medicine giuste. Non si tratta di negare – precisa più volte Rovelli – il supporto positivo che gli psicofarmaci possono dare nel disagio psichico […] ma si tratta di far sì che lo psicofarmaco torni a essere uno strumento tra gli altri nella cassetta degli attrezzi dello psichiatria, e non lo strumento centrale, quando non l’unico. Invece, che il farmaco sia spesso la risposta prevalente lo dicono i dati.
In Italia, ad esempio, 17 milioni di persone hanno fatto o fanno uso di psicofarmaci. Il nemico numero uno è la depressione: il 7% della popolazione nazionale assume antidepressivi, con una punta del 10% in Toscana. Vengono consumate 44,6 pillole al giorno ogni mille abitanti: meno di dieci anni fa, nel 2014, erano “solo” 39.
Nel 2021 l’AIFA ha reso noto il proprio monitoraggio sull’uso dei medicinali durante l’epidemia da COVID-19, sottolineando l’aumento (+12%), nel 2020, del consumo di ansiolitici, con una crescita maggiore nella cosiddetta Fase 2. Secondo dati più recenti, sono consumate all’incirca 10 pasticche al giorno ogni mille abitanti, con una crescita di 20 punti percentuali in meno di un decennio.
A livello europeo, l’Italia è uno dei Paesi in cui si riscontra in misura maggiore l’aumento del disagio psichico. Secondo un’indagine condotta da IPSOS, inoltre, è l’ultimo Paese in Europa per quanto riguarda il benessere mentale. E, sebbene ci piaccia incolpare quello che Rovelli chiama solipsismo informatico, è importante capire che i dispositivi elettronici, i social, non hanno inventato l’esposizione – o, meglio – sovraesposizione – al mondo. Semmai, l’hanno palesata: hanno offerto a Narciso il suo specchio.
È qui, tuttavia, che i più giovani oggi iniziano a parlarne, a confrontarsi, a cercare le parole per comprendere, per comunicare e comunicarsi una sofferenza che può aprire spazi di dialogo, di osservazione di un male comune. Gli stessi dati ci dicono che un ragazzo su dieci, nel nostro Paese, ricorre agli psicofarmaci, spesso per uso ricreativo. È il rovescio della medaglia, l’aver sdoganato il malessere mentale senza, però, dargli il giusto peso, l’analisi di cui ha bisogno per essere combattuto perché alla progressiva caduta dello stigma non ha fatto seguito un accesso più facile alle cure, una maggiore consapevolezza o i più adeguati finanziamenti alle strutture di prossimità.
Il disagio psichico è l’allarme che c’è qualcosa che non funziona nella rete sociale del soggetto e nel sistema in cui esso esplode. Solo una prassi collettiva di liberazione può salvarci. Su questo Rovelli non lascia dubbi. È la lezione di Franco Basaglia, ma anche di Mark Fisher e del professor Raffaele Barone – intervistato nel libro – che a Caltagirone cura l’intera rete di relazioni del paziente attraverso la tecnica del Dialogo aperto, i Gruppi multifamiliari e della Comunità terapeutica democratica.
Soffro, dunque siamo è un libro che fa quasi male. Rigoroso e, al contempo, divulgativo. Veritiero e realista. Un manuale per trovare le parole affinché – come nel titolo – l’io torni a essere noi.