In Napoli obliqua Edoardo Bennato canta: Non è piana non è verticale, è una linea che sale in collina, è una strada che parte dal mare, il percorso della città obliqua, scale mobili sotto la luna, diagonali e passaggi segreti, un cammino che esiste da sempre, il tesoro della città antica…
Di modi per descrivere e definire Napoli ne esistono migliaia, tentativi di rendere omaggio e giustizia, forse, a una città che non vuole essere né descritta né definita. Tuttavia, uno dei miei preferiti fa capo alla sua “diagonalità”, alla sua struttura urbanistica che non si stende solo in orizzontale o si allunga in verticale, ma si sviluppa anche in obliquo, in pendenza, di sbieco.
Quando si parla di Napoli come obliqua ci si riferisce ai suoi sistemi di risalita: in poche parole, alle scale, alle scalinate, ai gradoni che agganciano i bordi della città e permettono di collegare i livelli più bassi vicino al mare a quelli più alti in collina e viceversa. Napoli difatti non è una città in piano: c’è uno scarto d’altitudine di più di duecento metri tra Mergellina e la Certosa di San Martino, dunque attraversare lo spazio da un polo all’altro sarebbe un esercizio quasi impossibile da fare a piedi. La stessa funivia che congiunge, ad esempio, Via Toledo al Vomero è un sistema di risalita obliquo, ma ciò che interessa a me particolarmente sono le sue scalinate, quelle cantate da Bennato (fun fact: Bennato si laureò come architetto e uno dei suoi docenti, Michele Cennamo, negli anni Ottanta creò un progetto pilota chiamato proprio La città obliqua che successivamente il cantautore mutò nella canzone citata in apertura).
Nel corso dei secoli si è sempre ritenuto più utile collegare la città da est a ovest assecondando le curve di livello: così, ad esempio, Bagnoli veniva legata alla zona orientale più periferica di Napoli. La costruzione di queste vere e proprie opere monumentali va ricercata nelle espansioni che Napoli ha affrontato durante il XVI secolo: la città aveva bisogno di dilatarsi verso la collina, verso l’alto, e dunque per connettere la zona del centro e del mare ai neonati quartieri c’era bisogno di congiungimenti urbanistici facili da realizzare e comodi per le persone: le rampe.
Le prime a essere realizzate pare siano state le Rampe Brancaccio, un percorso di scale che collega Chiaia con l’area di Castel Sant’Elmo e la Certosa, e i Gradoni di Chiaia che da Via Chiaia portano ai Quartieri Spagnoli e infine a Corso Vittorio Emanuele.
Si dice che in città esistano più di duecento tra scale, gradinate, gradoni e rampe, alcune delle quali inglobate dai cambiamenti urbanistici – interrate, smezzate, deviate per essere congiunte con altre arterie, come ad esempio le Rampe Brancaccio che furono attaccate al Petraio – altre ancora intatte così come un tempo e in almeno un paio di casi si verifica anche lo sviluppo di un intero quartiere in obliquo, precisamente su cinquecentotre scalini: è proprio il caso del Petraio, un borgo napoletano che sale verso il Vomero. Di simile fattezza e ambientazione quasi magica è poi la Salita Moiariello: un percorso immerso nel verde che porta dal Rione Stella (Sanità) alla Torre del Palasciano.
Probabilmente, però, quella più famosa è la Pedamentina, la più antica tra le salite: da Corso Vittorio Emanuele sbuca nel Piazzale di fronte alla Certosa di San Martino, uno dei luoghi più belli e panoramici di Napoli. Venne chiamata così per via della sua funzione “pedemontana”, ovvero ubicata ai piedi del monte, scavata nel tufo e composta da poco più di quattrocento scalini.
Dalla più famosa a quella, forse, meno conosciuta: la Salita Sant’Antonio Ai Monti, che dal Vomero, attraversando l’Avvocata, Montesanto e la Pignasecca, porta a Piazza Carità e viceversa. Prende il nome da una chiesa originariamente intitolata a Santa Maria Ai Monti sorta nel 1563 e successivamente, a causa di un nubifragio che ne minò l’integrità, a Sant’Antonio. Anche in questo caso, come la Salita Moiariello, pare di trovarsi in un mondo completamente alieno.
Come non menzionare poi lo Scalone Monumentale di Montesanto, una magnifica scala a balze (purtroppo spesso sporca e degradata) che congiunge Corso Vittorio Emanuele a Montesanto? Voluto da Gaetano Filangieri e comparso in due famosi film, La tavola dei poveri di Blasetti (1932) e Il giudizio universale di De Sica (1961).
Ve ne sono talmente tante che si fa fatica a menzionarle tutte. Un cenno però meritano anche la Calata San Francesco – che non è formata solo da scale, ma per l’appunto rappresenta una “calata”, una strada lunga più di un chilometro che comincia in Via Belvedere e termina al mare; Salita Villanova, che congiunge Via Manzoni a Via Posillipo, particolare perché circondata da palazzi nobiliari, ripidissima e inglobata ancora in blocchi gialli di tufo; infine il Pendino Santa Barbara, una scalinata risalente al Medioevo che collega Piazzetta Monticelli (quartiere San Giuseppe) all’odierna Via Sedile di Porto la quale, anticamente, portava al mare. Una curiosità: la scalinata di Santa Barbara fu teatro di una delle scene più emblematiche delle Quattro Giornate di Napoli, quella in cui i popolani lanciarono oggetti di ogni tipo sul capo dei nazisti.
Dunque gradelle, gradini, gradoni, pendini, scalinate, calate, salite, discese, decine di modi di indicare un metodo ingegnoso non solo a livello urbanistico, ma anche antropologico: un sistema di risalita che permetteva a un quartiere povero di raggiungerne uno ricco non rappresentava unicamente un salto fisico, ma anche uno di classe sociale. Trasliamo questo concetto al giorno d’oggi: quante volte abbiamo sentito che al Vomero non sembra di essere a Napoli? Che differenza c’è tra, ad esempio, i Quartieri Spagnoli e Via Tasso? Senza cadere troppo nel cliché, è indubbio che quando si mette piede in collina l’atmosfera cambi. Pensiamo allora come doveva essere nel XVII secolo per persone che magari non avevano mai visto Napoli dall’alto, che entravano letteralmente in un portale dove spazio e tempo si modificavano.
Il termine “obliqua” mi piace sempre molto: i dislivelli che si aprono verso il mare o si abbottonano verso l’interno sono i luoghi più veri e autentici, perché spesso a uso e consumo solo degli abitanti. Non ho mai incontrato un turista sulla Salita Moiariello; al contrario, ho sbirciato nei vasci abbarbicati ai suoi scalini e ho potuto constatare quanto quelle famiglie vivano in funzione del luogo.
Probabilmente quel contrasto tanto declamato che sembra essere la specificità più apprezzata di Napoli passa anche attraverso i suoi luoghi di passaggio, le sue scorciatoie, queste vie dritte o tortuose come serpentine che allacciano un quartiere all’altro, un borgo all’altro e, di conseguenza, una persona all’altra, che sia un vomerese con un posillipino o un turista che dai Quartieri Spagnoli ha voglia di andare al Museo di Capodimonte. Chiaramente una maggiore consapevolezza permette di vivere queste risalite e discese con uno spirito diverso: un conto è imboccarle perché sono comode, un altro è percorrerle conoscendo la loro storia e l’importanza che hanno avuto e hanno tuttora.
Per chi volesse saperne di più, esiste un libro di Rogiosi Editore dal titolo La città obliqua: Napoli e le sue scale, un vero e proprio catalogo fotografico diviso per quartieri e vie che esplora la maggior parte delle scalinate della città.
Napule è tutta rampe, scalinate, scale, gradune, grade, gradiatelle. Sagliute, scese, cupe, calate, vicule ‘e coppa, ‘e sotto, viculille, vicule store, vicule cecate (…) Napule a vide crescere Tra rampa e rampa Tanta filèr’ ‘e panne spase, una culata ‘e case. – Carlo Bernari
Immagine in copertina di Francesco Sammarco ©