Guardia costiera statunitense, Pentagono, forze armate canadesi, esperti di ditte posa cavi sottomarini, aerei e mezzi privati impegnati in un’area di circa 26mila metri quadrati. Un dispiego di forze senza precedenti per individuare negli abissi dell’oceano Atlantico il sottomarino Titan diretto al relitto del Titanic con cinque persone a bordo. Cinque vite da salvare come era giusto che fosse, nonostante l’esito rivelatosi tragico.
Tutto l’oro del mondo non può valere quanto la vita di un essere umano: sono le sagge parole di Che Guevara vanificate da una realtà in cui i tempi che viviamo sempre più mostrano quanto a nulla valgano le esistenze dei poveri, degli emarginati, di chi scappa da guerre, fame e torture di ogni genere, quelle che Papa Francesco non si stanca di definire vittime della cultura dello scarto, divenuta ormai mentalità comune.
Seicento tra uomini, donne e bambini lasciati morire negli abissi dell’Egeo, con un mare calmo (cit. Bergoglio), una strage voluta, vite che nessuno ha più cercato, un lutto silenzioso di famiglie, genitori e figli raccolti nel dolore e nella disperazione. Un lutto senza bandiere a mezz’asta e commemorazioni, senza beatificazioni e lacrime a favore di fotografi e cameramen, come in un perfetto cerimoniale al Senato della Repubblica che ha celebrato lo statista, come ebbe a definirsi egli stesso in vita, esempio di fedeltà alla Costituzione nel rispetto della legge e della magistratura, sempre al servizio del popolo senza alcun seppur minimo interesse personale in difesa delle proprie aziende, lontano da logge massoniche e società mafiose.
Un perfetto copione dell’ipocrisia recitato nell’indifferenza generale, la stessa della tragedia consumatasi in un’Europa sempre più cinica e guerrafondaia, convinta che la lotta all’emigrazione vada combattuta inasprendo le pene agli scafisti, pensiero anche della Presidente del Consiglio italiana dopo i fatti di Cutro e di un CdM tenutosi nella stessa località al termine del quale la Premier, tra l’altro, non ritenne né di rendere omaggio alle salme né di incontrare i parenti delle vittime.
Ci sono vite e vite, quelle che valgono di più, altre meno, tante il nulla assoluto. Il tutto in una società dove regnano le disuguaglianze e sempre più si afferma con prepotenza la cultura dell’indifferenza e dell’egoismo dai connotati politici ben chiari e la ormai prossima entrata in vigore nel nostro Paese del regionalismo differenziato, quello spacca-Italia partorito dal Calderoli-pensiero, con la complicità di una sinistra soltanto nominale, e promesso sin dal sorgere di quella Lega omofoba e razzista, sdoganata come la destra proprio dallo statista passato a miglior vita e comprensibilmente osannato da ex missini oggi ai vertici del governo in carica.
Vite per cui vale la pena mobilitare il mondo intero e altre che risulta più utile che vadano a infoltire il grande cimitero del Mediterraneo evitando salvataggi, identificazioni e messa a deposito temporaneo di merce umana dal valore zero a costi elevati per la comunità. Parole che si preferirebbe né leggere né ascoltare ma che invocano una giustizia che mai verrà in un mondo dove l’io ha soppiantato definitivamente il noi. Vite da salvare e altre da scartare, vite che valgono, altre che costano e una società dove il profitto è l’unico valore riconosciuto. Anche la vita ha un’unità di misura.
Quanto valevano i morti di Cutro e le centinaia di migliaia di morti nel Mediterraneo (numeri approssimativi perché non si conoscono dati reali che non interessano a nessuno)? Quanto valeva la vita di Frederick, pestato a morte, alcuni giorni fa a Pomigliano d’Arco, per mano di due sedicenni che non avevano come trascorrere la notte se non divertendosi a massacrare il povero ghanese finito prima in un lager libico e poi su un barcone giunto sulle coste italiane? Vita ritenuta inutile da due giovanissimi cresciuti anch’essi in quella cultura del disprezzo e dell’odio per il diverso, per quel mondo di invisibili a Pomigliano come in tutte le città e i piccoli paesi dello Stivale che ha fatto la fortuna di una certa parte politica.
Quanto vale una vita? Resta una domanda senza una risposta unica: tutto l’oro del mondo, quanto può rendere uno schiavo, quanto può ricavarsi dalla vendita di organi di un bambino o di donne da mettere sul mercato della prostituzione o il nulla assoluto. Risposte che non sono riferite soltanto a una parte del mondo dove regnano fame e miseria ma anche alle nostre città, nelle città della vita e del progresso, di quella civiltà dove soltanto una parte è ben visibile, dove la pelle diversa pare non esista, dove il danaro è l’unica discriminante per la cecità di una società che si accorge dell’uomo sulla panchina soltanto quando il suo nome è compromesso per un gesto criminale dei suoi figli e il tutto è bene si concluda con una bella fiaccolata per dire al mondo che la città non c’entra niente.
In un bell’articolo su Internazionale a firma della sociologa Francesca Coin, Quanto vale una vita, è citato un libro dell’economista Kip Viscusi in cui si spiega che la teoria del capitale umano si presta a così tante contraddizioni da divenire inservibile. A volte, per esempio, conduce a stime così basse del valore della vita che diventa più conveniente risarcire una morte che prevenirla. Altre volte rende addirittura vantaggiosi i decessi. Non ci resta che piangere, per dirla con Troisi e Benigni.