Teatro, theào, vedere: luogo in cui si vede un aspectum, spettacolo. Theòs-Dio, nascondono un’identica percezione: il vedere. A rigore, dunque, tutto ciò che è mundus-mondo (il fosso di fondazione), ciò che appartiene a immaginazione-verbalizzazione, è teatro. Lo è la scatola cranica, lo sono le sue sinapsi, lo è il ricordare, lo è l’hic et nunc-nunc-et-hic-tac che scandisce il nostro tempo mentale.
Queste sono considerazioni ex post, dopo aver sfogliato, con cura, la cartella d’arte Chiusi i Teatri di Domenico Mennillo, poeta, e Giovanni Timpani, incisore (IL LABORATORIO/le edizioni, 2023) a dimostrazione della forte evocatività di questo lavoro.
Originariamente il teatro era il citato mundus, uno scavo, chiaro e visibile, chora sacra attorno alla quale il cerchio umano eseguiva rituali mediante canti o pantomime che ripetevano eventi mitici. In altra occasione abbiamo descritto come e quando nasce un mito che, fondamentalmente, è la narrazione di un sogno trasmesso da molte generazioni. La struttura del “teatro” (trama, azione, danza, musica) è rimasta inalterata. Storicamente, il teatro è diventato un luogo di addestramento civile, psicologico, esistenziale, certamente la più sociale delle arti e dell’espressività umana.
Che succede quando i “teatri” sono chiusi? Che la mimesi degli eventi non avviene: non ci sono autore, pubblico, coreuta, non c’è possibilità di adempiere all’atteso rito della condivisione tragica o comica e si cade, letteralmente, nel buio. Ma, anche, nella luce. In questa cartella il bianco e il nero consentono, come in una scacchiera metafisica, la metabolizzazione e l’intercettazione delle forze psichiche che si “catastrofizzano” sulla scena interiore.
Potremmo definire, se pur sono lecite le definizioni quando si parla di arte, questi lavori di Timpani un’opera al nero, una nigredo. Nella sala vuota del teatro ha fatto il nido il corvo alchemico. Ed è lui che guarda noi come attori in attesa di una parte.
Citiamo i versi che danno titolo alla cartella: Qui, lontano/lontano/come fossi in gelo/vedo dai rossi delle poltrone solo i tendaggi/solo tendaggi/chiusi i teatri. La tecnica compositiva di Mennillo ci autorizza a intervenire sul testo per cui, inserendo la cerniera di una virgola, il senso cambia: vedo […] solo i tendaggi/solo tendaggi chiusi, i teatri.
Quando i teatri (le menti) sono chiusi, la catastrofe è quella degli oggetti e dell’uomo che si cerca attraverso la “persona” riflessa negli elementi e nei praticabili scenografici, chiuso nella costellazione del filo di ferro. Le quinte, le pareti, compresa la quarta (in questo caso chi vede le incisioni o legge i versi) sono composte da ciechi. Ne siamo sicuri? L’insistere su elementi geometrici puri non fa forse pensare a Er? Non è forse un teatro la caverna, chiusa, dell’eroe platonico? L’esclusione del vedere sottende l’assenza di spettatori e attori e, pertanto, le cose diventano protagoniste, recitano se stesse.
Ed ecco che da profondità ancestrali si sente lo scuotimento della terra dovuto agli zoccoli di un cavallo che appare scomparendo. È lui il deus ex machina, il solutore degli enigmi di Timpani e Mennillo. È evidente il contrasto tra la cosità senza cosa, inerte, delle scene, il loro spasmo verso una forma pura, e l’impeto del cavallo colto nell’attimo di mordere, furibondo. La quiete, le ellissi senza fuochi, i trapezi e i quadrati della logica vengono infranti da questo dèmone perché il troppo asettico e geometrico è prossimo al virulento e allo scompiglio. In altri termini, il bìos intellettuale cede il passo e il luogo allo zòon della natura, all’istinto.
Domenico Mennillo si nasconde, accovacciato nella poltrona rossa, tende a esserci senza esserci, ovvero il voler scomparire, il sembrare di sembrare. Il teatro, ci dice, è chiuso ma non ha il soffitto. Su di lui ci sono il cielo aperto e le nubi: l’impulso è staccarsi dalla propria anima ma costei ha suole di piombo per cui è obbligata a restare coi piedi per terra, a sostare in un labirinto di inchiostri. La vediamo affaccendata a usare tamponi per asciugarli e questo gesto è un’ulteriore conferma del desiderio di eliminare tracce di presenza. È Mennillo lo spettatore che, nell’attesa che i tendaggi si aprano, ha tutto il tempo di mordersi le unghie e vederle ricrescere incarnate.
I versi sono molto densi, meditati in un campo di concentrazione, con echi da Shakespeare e dell’Eliot che, in Mercoledì delle ceneri, cita Guido Cavalcanti (perch’ ì’ non spero di tornar giammai vs. a me non posso più ritornare/a me non posso più ritornare): una ballata di polvere e gelo, di nebbia che sale verso l’alto, attratta dalle nubi che fin dall’inizio sovrastano i versi.