Una chitarra e la voce graffiata che ne muove le corde, chissà se da lassù riescono a sentirle. Dal Fernsehturm, la Torre della Televisione, si intravedono poche luci, eppure in quasi ogni angolo della città lo sguardo perso di un giovane che prova ad agguantare il futuro le cerca e si sente al sicuro. I cappotti che abbiamo portato con noi pesano sugli avambracci, la temperatura è mite e piuttosto estiva, quasi ci si dimentica di essere a marzo nel pieno centro dell’Europa. Persino Eolo, oggi, sembra andato in vacanza. Intanto, mobile nella sua grandezza, l’Urania-Weltzeituhr, l’orologio universale, ci ricorda che anche in questa piccola fetta di mondo è ormai ora di cena. Ci crediamo poco, però. Le insegne, più che luminose, ci confondono le idee, illudendoci che il sole non sia ancora andato del tutto a dormire. Ad Alexanderplatz, dicono, non si riposa mai.
Come ti trovi a Berlino Est? Battiato cammina al nostro fianco e ai nostalgici di un comunismo che non è mai stato – o mai fino in fondo – un nodo alla gola impedisce la parola. Cercavamo la piazza rossa di Germania e, invece, non l’abbiamo trovata, non c’è, non più. La testa ci gira, tutto intorno, come in un film, i loghi delle più famose catene americane, simili a sensuali meretrici all’ombra dei lampioni, ci tentano passo dopo passo. Non è difficile farsi un’idea su chi abbia vinto la lunga sfida tra Est e Ovest.
Attraversando la piazza, infatti, appare chiaro che lo snervante conflitto tra Russia e Stati Uniti abbia visto questi ultimi issare vittoriosi la bandiera a stelle e strisce. Eppure, è palese, lo si sente sotto pelle, che si sia trattato di un processo senza rumore, subdolo e silenzioso, privo di dichiarazioni di trionfo o brindisi ufficiali. Caffè lunghi, ciambelle, panini e abiti di scarsa qualità a buon prezzo sono stati introdotti nel quotidiano fino a non poterne più fare a meno. Ovviamente, non senza aver distrutto prima, come per fagocitosi, i resti sovietici di una Berlino ormai sfinita e lacerata. Quella stessa Berlino, spartiacque di un continente frastornato, violentato, sfruttato, e a sua volta massacrata, che oggi appare forte, quasi imbattibile, sicura nella sua dinamicità. Una città in eterno divenire.
Parigi è sempre Parigi e Berlino non è mai Berlino. Disse così un ex ministro della cultura francese, Jack Lang, discutendo su quanto rapidamente cambi la capitale tedesca. Mentre la si scopre, le sue parole risuonano forte, anche ad Alexanderplatz. La piazza – che prende il nome attuale dalla visita del 1805 dello zar russo Alessandro I – già una delle maggiori zone di interesse economico della città, oggi appare come un grande centro commerciale all’aperto, presto probabilmente anche sito di ben tredici grattacieli. La sua occidentalizzazione procede rapida e indisturbata, come a cancellare le tracce di una DDR – Repubblica Democratica Tedesca – che in quella stessa aerea vide schierarsi contro di essa il popolo nella più grande manifestazione antigovernativa della storia dell’intero paese.
Ai nostri occhi Ochsenmarkt (mercato di buoi), così denominata in origine, sembra stia provando a coprire i segni di una trasformazione costante, dovuta a epoche, culture e concezioni urbanistiche differenti, che l’hanno sempre vista protagonista sin dalla sua nascita, ma che continua a portarsi dietro in modo ancora piuttosto visibile, soprattutto grazie alla presenza di numerosi edifici del post-guerra – in cui andò in gran parte distrutta – e risalenti all’epoca stalinista. Definita già negli anni Venti come il cuore pulsante di una città cosmopolita, nel celebre romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, in essa la vita pullula e non può, non deve, non ci sta a farsi chiudere in un grande magazzino. Le persone che l’affollano ogni giorno sono tante, troppe. Giovani e meno giovani, a piedi o su due ruote, la attraversano e si rincontrano. Ci vediamo ad Alex – come la chiamano i berlinesi – non è frase così rara per fissare un appuntamento. E ad Alex noi, curiosi viaggiatori, sappiamo che non potevamo mancare. Ce l’aspettavamo diversa, ci ha deluso, o forse no, semplicemente sorpreso. Di certo, abbiamo la consapevolezza che ci saremmo persi qualcosa.
La piazza, oggi un po’ yankee, non è come ce l’aspettavamo. Probabilmente, non lo è mai stata. Eppure, il nostro sogno comunista, che sempre resiste, ci suggerisce che in quest’aria leggera della sera, nei fiumi di birra che scorrono, nelle risate di questi ragazzi che incrociamo seduti a terra, in quella coppia che si tiene per mano, nel caos calmo di una città moderna del Nord, in Ampelmann – l’omino del semaforo berlinese –, nelle luci dei neon, nelle ruote di una bicicletta che si gode le strade larghe, un alone, uno spettro invisibile, un ricordo lontano, ma mai sbiadito, un rosso pasionario e operaio, di uguaglianza, c’è e non si può cancellare. In fondo, ci piace pensare che Alexanderplatz sia solo una donna che ha tinto i capelli perché al marito piacciono le bionde.
Attraversiamo la strada e continuiamo a passeggiare, i cappotti ora ci coprono le spalle. Non fa freddo, ma abbiamo bisogno di sentirci più protetti. Nella capitale tedesca, dove si ha una forte sensazione di libertà, la guerra è finita solo ieri. La dittatura, però, quella più sottile, che si cela nei sotterranei, ci fa ancora paura. Ci voltiamo. La Torre della Televisione è ancora lì.
Per visitare Berlino bisogna saper vedere anche quello che non c’è più e saper intuire una ingannevole realtà. Qui gli eventi sono cicatrici sul volto della storia, ma la loro capacità evocativa è intatta. A Berlino nulla resta più visibile di ciò che si cerca di cancellare.