Ci sono libri speciali che lasciano una traccia indelebile dentro chi legge. Uno di questi è Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni a cura di Alessandra Dino e Gisella Modica (MIMESIS).
Non è semplice affrontare il problema della presenza della criminalità organizzata nel nostro territorio. Questo testo utilizza la pratica femminista della narrazione a partire da sé e dalla consapevolezza, anche non espressa, di quanta complicità e inconsapevoli ambivalenze personali si vivano nei confronti del fenomeno mafia.
Il sistema in cui viviamo ci rende esposti gli uni agli altri. Le curatrici hanno chiesto storie personali, non fredde e asettiche analisi, ma scritture particolari che leggono il grado di contaminazione affettiva, valoriale, rivelata e rivelabile. Mettersi in gioco è la posta, convinte delle contraddizioni irrisolte, delle radici collettive e condivise.
Così la scrittura cura le ferite e diventa un luogo privilegiato di effettiva resistenza.
La domanda che ogni autrice ha dovuto porsi è Che cosa c’entro io con la mafia. Una risposta semplicissima: io non c’entro nulla. Invece quest’antologia di racconti demolisce ogni certezza, ogni luogo comune. Non esiste il bianco e il nero ma una gamma di sfumature, dove le relazioni familiari, parentali e di prossimità rendono indefinibile ogni confine. Le autrici presenti in questa raccolta ci presentano i fenomeni mafiosi attraverso nuove lenti, proponendoci non solo di cambiare o variare i punti di vista ma anche il punto di partenza. Parlare di mafia è un’esperienza dolorosa e questo testo costruisce un’indagine capace di esplorare in profondità.
Rossella Caleca scrive: i luoghi co-esistono, non possono ignorarsi. La mafia la troviamo ovunque, nei quartieri socio-culturali più svantaggiati come in quelli più ricchi, nella politica come in quella burocrazia nella quale ci imbattiamo ogni giorno. Bisogna interrogarsi sul ruolo delle donne nella mafia, dice Sara Polluce, in un luogo patriarcale che persiste con tenacia nelle sue credenze copionali. Esistono interconnessioni e contaminazioni che vanno dichiarate senza pregiudizi.
Le donne nel sistema mafioso subiscono una doppia oppressione, quella concreta vissuta nel quotidiano e quella dovuta alla narrazione stereotipata della condizione femminile in generale, da cui deriva anche quella sulle donne che subiscono violenza.
Emancipazione vuol dire riuscire a mettere fine a una cultura di morte che, ancor prima di uccidere le persone, uccide le parole. I luoghi possono essere “rifondati”, sostiene Gisella Modica, a partire dall’agentività delle donne. La vera emancipazione femminile allora è nella parola, in quell’atto rivoluzionario e potente e proprio per questo spesso vietato. Bisogna essere capaci di raccontarsi e di costruire altri legami, cercare riconciliazioni e ponti relazionali possibili. Le parole tessono, creano comunità.
Come ha fatto Felicia Impastato che ha aperto porte e finestre della sua casa, dopo la morte del figlio, per parlare di mafia e di lotta alla mafia a chiunque volesse entrare. Clara Triolo, una delle autrici, scrive: Come puoi parlare di antimafia ad una classe di adolescenti che vivono in un quartiere dove mancano i servizi essenziali, il lavoro, le opportunità di crescita e di educazione?
[…] Esistono zone grigie, dove il consenso nei confronti delle mafie è generato più che dalla paura, dal bisogno, e che si può spezzare solo col dialogo, il dubbio, l’ascolto non giudicante. […] Ho scoperto una lotta alle mafie che passa non necessariamente attraverso verità calate dall’alto su cosa sia giusto o sbagliato, ma attraverso lo scambio di narrazioni, la propria interiorità, l’apertura al dubbio.
Le autrici mettono in luce l’abitare delle donne sul confine in questa difficile geografia della mafia. Esemplari l’esperienza del Comitato dei lenzuoli, l’esercito delle maestre che raccontano in classe, i progetti nei carceri minorili, la pratica della riconciliazione, i laboratori di autobiografia e ogni prassi che parte dall’ascolto non giudicante e che accetta ombre e attrazioni, prendendo consapevolezza degli stereotipi inconsci della violenza.
Alessandra Dino confessa: «Mi è capitato spesso di avvertire la difficoltà del narrare, e l’esigenza di un continuo riposizionarmi, nello studio delle zone liminari dell’universo mafioso: vagabondaggi su delicati territori di confine, poco battuti dagli approcci più canonici».
Lotta alla mafia è lotta al patriarcato, al pensiero binario che crea e fortifica. Sapere che questa crescita è legata a una narrazione intergenerazionale. Vuol dire affrontare senza imbarazzo quel groviglio di contraddizioni che genera. E così anche il mio racconto, inserito in quest’antologia, ha preso uno spessore diverso.
Rileggendo ciò che avevo scritto, mi sono resa conto che la traccia del mio vissuto si era persa nella narrazione, la traccia emotiva di uno sconcerto, quel senso di impotenza che avevo sentito lavorando nella casa famiglia con le ragazze madri che venivano dai peggiori quartieri di Napoli, la mia città. Quel senso di spaesamento e di vuoto nel sentire che non potevo fare da ponte tra il mondo violento delle donne/bambine, feroci a volte come tigri e in altri momenti così scoperte e vulnerabili, e il mondo del volontariato cattolico fatto di suore acerbe all’ascolto, impreparate e condizionate da una visione manichea dei comportamenti umani.
Non ero dalla parte delle suore e non ero dalla parte delle ragazze. Ero in una terra di centro, senza confini che percepiva sulla pelle la fragilità di quelle due fazioni contrapposte e unite nello stesso territorio. Un nimbo di assoluta precarietà dove c’erano tante ombre e dove il divario tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici sfumava. Il sistema camorristico era dentro un sistema più grande, quello del capitale e del consumo di cose, che mangiava tutti in modo cannibale.
Il pensiero binario, figlio del patriarcato maschilista, non permette di sentire e percepire le sfumature e le possibilità di vedere altre possibilità. Uno sguardo divergente che libera le potenzialità di risposta e non costringe a fare delle scelte che classificano rigidamente le persone.
Il patriarcato ha bisogno di mantenere un ordine fondato sulla divisione delle persone in superiori e inferiori, toccabili e intoccabili, che sia sulla base della razza, del genere, della casta, della religione, della sessualità, di tutto ciò che vi può venire a mente. Per costringere al sacrificio della relazione, necessario per stabilire e mantenere le gerarchie di potere e di status occorre dunque rendere inefficace la protesta e sovvertire la capacità di riparare le relazioni. – Carol Gilligan, Perché il patriarcato persiste, Vanda Edizioni 2021
Questa citazione adesso mi sembra ancora più illuminante. Bisogna leggere le storie a partire dal bisogno del patriarcato di creare categorie contrapposte per togliere potere alle relazioni. L’uomo rinuncia alle relazioni per avere potere e le donne rinunciano ai bisogni del sé per compiacere il modello femminile dentro cui sono state educate. La logica del potere agisce anche tra i gruppi di donne e ne determina in modo drammatico quella barriera comunicativa che si basa sulle definizioni che irrigidiscono ogni ascolto dell’altro. Le suore volontarie e le ragazze borderline. Due mondi contrapposti e ognuno pronto a fortificare i recinti dentro cui rimanere.
Importa quali materie usiamo per pensare con altre materie; importa quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; importa quali nodi annodano nodi; quali pensieri pensano pensieri, quali legami legano legami. Importa quali storie fanno i mondi, quali mondi fanno le storie. – Donna Haraway, SF: Science Fiction, Speculative Fabulation, String Figures, So Far, 2011
Creare legami, reggere la relazione a partire dall’affettività, dal bisogno di prossimità e di ascolto. Questa prospettiva è assolutamente divergente rispetto alla necessità di conformismo del modello patriarcale. I due modelli maschili e femminili sono entrambi mutilati dalla logica della contrapposizione di genere.
Critica ogni dualismo: maschio/femmina, natura/cultura, corpo/mente, s/oggetto, soggettività/oggettività, ragione/emozione. Oggetti un tempo e ancora considerati passivi ora sono soggetti attivi, e la teorizzazione dell’agentività della materia può non privilegiare l’umano. – Liana Borghi
Il dualismo diventa infatti la scatola chiusa del pensiero binario, manicheo e asfittico rispetto alla plasticità dei corpi e delle loro intelligenze performative. Lo sguardo divergente può avere la capacità di leggere la connessione tra le persone e il bisogno di legame che spesso spinge alla contaminazione e all’ibridazione. A partire da questi bisogni bisognerebbe rileggere anche la devianza e capirne la genesi per creare un ponte verso una risoluzione non violenta.
I confini s’intravedono appena,
quasi esitanti – esserci o non esserci?
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buonumore
sul tavolo mi dispiegano un mondo
che non è di questo mondo.
– Wisława Szymborska, La mappa
Bellissimo questo frammento poetico della Szymborska. Le mappe dicono bugie. Infatti le mappe concettuali sono schemi cognitivi complessi ma rigidi perché riducono il nuovo all’interno delle loro categorie più vecchie e tolgono energie al dato che viene immesso per riportarlo a regime, in un processo di normalizzazione e di banalizzazione spesso puramente conservativa delle credenze già interiorizzate. È così infatti che il pensiero giudicante si muove nell’affrontare un comportamento deviante. Giudicare, classificare e depotenziare. Azioni di un flusso cognitivo che porta a non comprendere ma a chiudere.
La mafia e lo Stato, i buoni e i cattivi, la scuola e il carcere, i delinquenti e la brava gente. Infinite le narrazioni che amplificano la divisione tra queste stereotipie. Ma serve veramente questa contrapposizione per uscire dalla logica della violenza oppure è essa stessa un processo violento che non porta se non guerra e morte? Stare dentro la logica del potere dei soldi non ci rende tutti complici di questo sistema? Non bisogna prima di tutto indicare la matrice del consumismo e dell’oggettivazione dei corpi e del tornaconto puramente commerciale di ogni rapporto? E come si esce da questa droga collettiva e condivisa in modo legale e illegale? Ne siamo tutti fruitori?
Contributo a cura di Floriana Coppola