Ho vissuto sempre in città. Napoli, Edimburgo e ancora Napoli. Di orti, nei miei trent’anni, non c’è mai stata traccia. Qualche balcone con piante e fiori, quello sì, e tuttavia nessuno che fosse sotto la mia cura. Non ho quello che si chiama “pollice verde” – la mia allergia ringrazia – e, così, questo libro che mi accompagna da giorni, alla scrivania, in treno, prima di andare a dormire, può sembrare inadatto e, invece, è una lettura che rifarò ancora. Si chiama Dall’orto al mondo ed è – davvero – un piccolo manuale di resistenza, non solo ecologica.
Barbara Bernardini inizia a scriverlo nel marzo del 2021 quando – ci racconta nella premessa – comincia a tenere un diario dell’orto, un piccolo appezzamento di terra dell’Agro Pontino di cui sceglie di prendersi cura: le pagine poi edite nottetempo partono da lì, per finire nel mese di febbraio dell’anno successivo. Il libro, infatti, ha un andamento ciclico: dal momento in cui si prepara il terreno, quello che anticipa la primavera, a quello che saluta l’inverno, quando tutto riposa in attesa della nuova stagione. È un periodo, l’anno nei campi, privo di confini netti, una storia che ha un inizio e una fine ma che, non per questo – scopriamo leggendo –, si ripete sempre uguale.
Al diario si affiancano gli appunti su tecniche e schede di coltivazione, su uccelli, insetti e ortaggi, sulla loro storia, sull’origine – talvolta stramba, talvolta aulica, talvolta scientifica – dei nomi che abbracciano la terra e di cui Barbara Bernardini vorrebbe sapere di più. Non a caso, gli appunti sono raccolti nell’Almanacco degli anni a venire, un calendario dei lavori prossimi e dei sogni lontani, dei progetti concreti e dei vaghissimi buoni propositi. Una dispensa vuota di barattoli e piena di idee.
Per ogni mese, infine, ci sono gli Innesti, riflessioni che l’autrice affida alla pagina, come fosse un diario, e al lettore, spostando lo sguardo da sé all’altro, l’azione individuale che si fa collettiva: passo molto tempo lontana da tutto, nascosta fra pomodori e zucche – scrive – eppure i segnali grandi e piccoli dei tempi che ci troviamo a vivere sono arrivati con più chiarezza ora, da questo osservatorio minuscolo fatto di semi e radici, di quanto abbiano fatto in passato. Forse perché è alla terra che dovremmo ancorare ogni pensiero sulle cose del mondo.
Chi legge è invitato a un tempo di cui sembriamo non avere più contezza: quello dell’attesa. Un tempo che, al contrario di quanto si pensi, non è mera contemplazione. Il saggio che riflette nel tempio. I giorni che precedono la semina sono lunghi momenti di studio, lavoro, preparazione. Preparazione del terreno e di se stessi. Perché se tutti possiamo imparare a falciare, non tutti sappiamo coltivare. La fertilità del suolo trova in qualche modo riscontro nella fecondità dell’animo umano, un animo che deve sentirsi pronto ad accogliere come la terra con i suoi germogli. Come la pianta che agogna acqua. Come il seme che vuol tramutarsi in sostentamento.
È un tempo, quello dell’attesa, in cui ci si può sforzare a guardare oltre. Oltre i nostri orizzonti offuscati dalla rincorsa di qualcosa di effimero o innaturale, dai palazzoni grigi di una modernità che ostruisce la vista e i polmoni, dall’antropocentrismo che pone l’uomo al centro ma finisce con l’annullarlo. È il tempo per capire che tutto è costruito e quindi può essere smontato o messo da parte: a volte può bastare l’incontro con un’upupa, assistere al volo di un barbagianni, arrampicarsi su un albero, ritrovare una famiglia di funghi nello stesso punto del bosco dell’anno prima, scoprire di poter riconoscere un’erba spontanea dai suoi fiori e le sue foglie, mettersi in ascolto dei linguaggi non umani di cui è pervaso il mondo. La sfida – apprendiamo – sta tutta qui: nell’avere pazienza. E nell’umiltà di accettarlo.
Suona ingenuo, forse, ma è la tendenza a metterci al centro – al centro e al di sopra – dell’ordine delle cose, e a considerare esclusiva umana l’intenzionalità, a essere un’ingenuità. Bernardini anticipa ogni mozione, stracciando il velo di Maya che è la promessa di un progresso infinito: è più facile trattare “la natura” come risorsa da cui attingere senza limiti se la si considera separata da noi. Una deresponsabilizzazione che ci permette di ignorare le conseguenze delle depredazioni continue, finché il rumore di quelle conseguenze non comincia a farsi abbastanza potente. Eppure – ci esorta l’autrice – insieme al rumore del crollo, arriva anche una nuova possibilità: quella di riposizionarsi nel mondo.
Ma cosa significa riposizionarsi nel mondo? Significa buttare giù la separazione artificiosa che ci divide dal paesaggio e che lo rende ai nostri occhi solo sfondo. Di una foto, di un’azione umana, di un sentimento che muta al mutar delle stagioni. Ed è qui che il libro diventa resistenza. Nell’invito a far filtrare solo le cose importanti e tenere fuori le altre, sottraendosi quanto possibile a un sistema che mostra tutte le sue storture, per ritrovare posto in un ciclo più giusto. Per rimediare all’accelerazione estrema verso qualcosa che all’inizio era benessere ma ora spinge verso un malessere inspiegabile.
È il malessere dei giorni moderni, una sofferenza concreta che corrode l’animo nostro e della natura che abbiamo a nostra volta corroso. Il capitalismo, il mercato impazzito, lo sfruttamento intensivo, la grande distribuzione. È l’ansia da produzione che si è fatta crisi climatica. L’infertilità sociale che si è fatta aridità del suolo, siccità, picchi inaspettati di calore e piogge rare ma abbondanti. È il consumismo insulso di chi non ha nemmeno più la pazienza di consumare.
Senza alcun intento didascalico o moraleggiante, Dall’orto al mondo è un invito alla lentezza e, insieme, al recupero dell’azione politica che tanto manca in questo tempo privo di passione. Perché è la passione che sembra muovere la penna e, ancor prima, la zappa, la falce, ogni strumento atto a modellare la terra, a renderla accogliente, materna, fonte di vita nuova ed eterna scoperta. È questa che muove Barbara Bernardini, la delicatezza della sua scrittura che ha carattere e ironia, dolcezza e competenza. E lo fa, nelle pagine di Dall’orto al mondo, in una modalità inedita, incasellata in una struttura che, per definizione, è chiusura, introspezione, soliloquio e che, invece, qui diventa apertura, racconto, riflessione che vuole essere confronto con l’altro, sia esso umano, animale o vegetale.
A discapito del titolo, infatti, non siamo dinanzi a un manuale, a un prontuario dell’aspirante contadino o dell’ambientalista 2.0. Siamo dinanzi a una guida che, pur seguendo un andamento stagionale, il tempo del raccolto, è innanzitutto condivisione, ricerca dentro e fuori di sé. Rilassante e ironico, riflessivo e mai pedante, nel nuovo volume della collana Terra non c’è intento rivoluzionario o presunzione ecologista. C’è un’esperienza personale che valica i confini dell’io anelando il noi, consumatori e agenti politici al contempo.
Non a caso, quella dell’orto è una tradizione che la famiglia di Bernardini si tramanda di generazione in generazione: dal nonno, che l’autrice definisce contadino vero, ai nipoti (Barbara e suo fratello che curano questo terreno) ai bambini (i figli di Barbara) che oggi scorrazzano tra pomodori e zucche e, chissà, un domani vorranno ancora seminare e raccogliere, arare e osservare, non fare e fare, a metà tra Fokouka e la nonna – di cui sono riportati numerosi consigli. Un’idea dell’orto e della cura della terra che è anche eredità, un modo per tenere saldo il legame con chi amiamo, con chi era, chi è e chi non è ancora. Il recupero di un passato che guarda al presente e parla al futuro.
Non è il ripiegamento in un tempo ameno questo rettangolo di frutta e ortaggi, è l’odore delle foglie d’infanzia e il presagio di sensi ottusi. La lancetta dell’orologio – lo scopriamo ogni giorno – che gira troppo in fretta per restare a guardare. È per questo che il discorso si articola tra vecchie citazioni ed esempi più concreti di letteratura, quella che attivisti e collettivi stanno scrivendo per cambiare uno status quo che può e deve non essere tale.
Nel testo, sono citate e raccontate molte lodevoli realtà. Penso a La Via Campesina, la più grande rete contadina e ambientalista su scala mondiale: duecento milioni di piccoli agricoltori da tutto il mondo, contadine e contadini rimasti senza terra, migranti, comunità rurali indigene che lottano assieme per un diverso modello di agricoltura, sostenibile, giusto, diffuso. Lottano per la sovranità alimentare, non in senso populista ma popolare, del popolo, lottano per il diritto di ognuno di esercitare il controllo sulla propria terra, sul proprio cibo, sul proprio corpo. Una lotta che si estende anche agli altri macrotemi della modernità: patriarcato, colonialismo, sfruttamento. Sembra non abbiano nulla a che fare con un piccolo rettangolo di terra e, invece, è da lì che parte la consapevolezza.
È natura controllata un orto, non rivoluzione epocale, eppure – affinché questa si realizzi o, meglio, venga da noi realizzata – in quel tempo di attesa che è riflessione e apertura, può insegnarci a resistere. Resistere tornando a fare qualcosa che ha un significato circoscritto, inequivocabile, tondo, giusto, buono: se pianto un seme è per mangiare un pomodoro. Resistere con coscienza. Imparando dai funghi, magari. Dalla loro organizzazione della vita nel sottosuolo, fra macerie e radici. Imparando a riconfigurare la società in modo reticolare, ugualitario, libertario. Imparando dalle piante, la cui storia è una storia di viaggi; dai semi e dalle spore, portati dal vento da una parte all’altra incuranti di ogni persona fermata alla frontiera, di ogni battaglia scoppiata lungo i confini, invenzione umana così contro natura.
Io da qualche tempo – scrive Barbara Bernardini – quando vedo una crepa aperta, semino. Mi sembra il modo più concreto per rimanere ancorata a terra, per non farmi trascinare via dal crollo. Mettere radici, riallacciare legami, trovare aperture che siano di fuga, sì, ma immobile. Direi, appunto, che se ho davvero fortuna e quei semi germogliano, vederli spuntare mi riporta in me. E, forse, dovremmo iniziare a farlo tutti. Seminare, intendo. Tra le tante, troppe crepe di questo sistema impazzito per ritornare a noi.
Dall’orto al mondo, dalle radici alla strada, essere pianta che rompe l’asfalto.