Mi sono concesso il lusso di dimenticarmi che tutto è effimero: a confidarlo è James dopo aver scoperto che Tully, l’amico di una vita, ha il cancro. Succede a tutti, ci si dimentica che il tempo deve passare.
Basta un termine, una scadenza precisa, un’aspettativa di vita definita e di colpo ti cambia la prospettiva. Non sei più immortale perché all’improvviso compare lo spettro della fine e di fronte alla fine si spiega tutta la mortalità dell’uomo.
Mentre parlava sentii per la prima volta che la nostra amicizia aveva un’ultima fermata.
Effimeri di Andrew O’ Hagan, edito da Bompiani, è un libro potente che parla della sensazione di immortalità che attraversa la giovinezza e di quella del risveglio dal sogno di gioventù, quando diventato adulto la vita ti ricorda quello che hai dimenticato: tutto ha una fine, anche ciò che sembrava eterno.
Effimero viene dal greco e significa che dura un solo giorno. L’amicizia di Tully e James però è qualcosa che dura di più, è un legame che sopravvive alla giornata, ai mesi, agli anni e perciò anche alla morte. Uno di quei rapporti che basterebbe a giustificare e legittimare una vita, fatto di affinità e complicità uniche, di condivisione dei pensieri più amari e delle frustrazioni più segrete, delle sbronze più pesanti e avventure più incredibili.
Tully è per James quella persona senza la quale lui non sarebbe quel che è, quella che nonostante lo scorrere del tempo e la distanza geografica conserva per sempre la sua essenza. E quando incontri una persona a quella frequenza cosa vuoi che sia l’effimero? Quella persona ce l’hai per sempre. Tully è l’amico che spalanca la porta di casa a James quando a diciotto anni “divorzia” dai suoi genitori: gli presta la sua famiglia salvandolo dalla solitudine. Crescono insieme e James ricambia più tardi il favore offrendogli un’alternativa alla vita di fabbrica che giorno dopo giorno logora l’anima di Tully.
A Manchester infatti, dove i due assieme ad altri amici sono andati per assistere a un concerto epocale, Tully promette a James e a se stesso che quella non sarà più la sua vita: riprenderà a studiare e non diventerà la fotocopia del padre. Quelle promesse e quelle amicizie che cambiano i destini, quei viaggi e quelle prese di coscienza che segnano il confine tra un prima e un dopo.
Dicono che a diciotto anni non sai niente. Ma ci sono cose che sai a diciotto anni e che non saprai mai più: sembrano i versi della strofa finale della canzone di Ligabue, Lettera a G.
Forse perché a diciotto anni è più facile sentirsi padroni del mondo: hai i tuoi amici, hai davanti un campo sterminato di tempo, il diritto e soprattutto il dovere di sbagliare, la fiducia nel futuro dalla tua parte e la convinzione che della tua vita puoi fare ciò che vuoi e che il mondo ti deve un posto da qualche parte come se ti spettasse per legge. Poi cresci e capisci che non sempre va così e di quelle cose che sapevi a diciotto anni finisci per non sapere più niente.
La sai una cosa amico? Abbiamo avuto la nostra festa. Abbiamo avuto la nostra storia.
Questa per esempio è una di quelle cose che sa un adulto, uno che riconosce l’importanza di essere stato parte di una storia, di essere quella storia, e si aggrappa alla consapevolezza che è l’unica che consola e rende meno amaro un epilogo già scritto. Perché nessuno ti può togliere ciò che ti appartiene e cosa ti appartiene se non la tua storia? È la sola. Non puoi essere immortale ma puoi avere la tua storia.
Ed è sul serio tutto effimero soltanto perché c’è una fine? O forse effimero è semplicemente ciò che non ti dice niente di te? Tutta quella vita che non si ferma, che scorre come acqua che non riesce a levigare chi sei ma che comunque ti aiuta a vedere con più chiarezza ciò che effimero non è stato. E allora in questo senso anche quello che sembra non dirti niente di te può essere catartico, l’effimero può far luce su ciò che ti ha lasciato al buio e sprigionare così la sua poesia rigenerando vita e creando spazio.
È come un’esplosione di vita che succede e poi non c’è più. Abbiamo avuto il nostro momento.
Il riconoscimento che il meglio di quella storia, di quell’amicizia, è al tramonto, o forse già alle spalle. La fine si avvicina, la si riconosce e non la si può impedire ma solo accettare. La tentazione è quella di voler posticipare o almeno estendere la durata dell’esplosione per continuare a sentirsi vivi, ma anche quell’esplosione è effimera, finirà.
E allora il volume della musica pian piano si abbassa, la vita di Tully balla più lentamente perchè la festa sta finendo. Eppure proprio lui, Tully, era l’anima della festa, quello che teneva per sé le sue malinconie e i pensieri più tristi condividendo con gli altri la parte migliore; l’amico che c’era sempre, quello strano dalle idee fuori dal comune e dal pensiero irriverente, capace di svoltare ogni situazione.
Era l’anima della festa, dice James, allora alza la musica, gli viene suggerito. Perché ognuno se ne va a suo modo, nel suo stile, e Tully, fedele al suo spirito ribelle, non aspetta la morte ma le va incontro. Perché se è vero che non può evitarla, può scegliere come affrontarla. E a James non resta che fare ciò che fanno gli amici veri: stargli accanto fino all’ultima fermata.
Qua c’è tutto a dire che ci sei, canta alla fine Ligabue, e probabilmente è ciò che pensa anche James alla fine della corsa perché effimeri siamo tutti ma l’eredità del viaggio di certi legami non lo sarà mai.