Dì’ un po’: quante volte ti sei sentito dire che non hai il diritto di lamentarti perché studiare non è poi così faticoso? Che, francamente, hai scelto tu di iscriverti all’università, sapevi a cosa stavi andando incontro. Nessuno ti ha mica puntato una pistola alla tempia. Smettila di fare storie, io alla tua età lavoravo in fabbrica per mantenere la mia famiglia.
E quante volte avresti voluto rispondere che sì, hai scelto tu di frequentare l’università ma magari non hai scelto di vivere o subire tutto ciò che nel mezzo ti è capitato. Ecco, molti pensano che dopo aver inviato la richiesta di immatricolazione e aver pagato la tassa d’iscrizione la vita si metta in stand-by in favore dell’università e degli esami da dare. Come se ci fosse un pulsante in grado di spegnere, di fermare le emozioni e tutto il resto. E invece no.
Non esiste un pulsante in grado di fermare la nostra esistenza che scorre e tutto ciò che ci sta in mezzo. Così, bisogna studiare, riuscire ad andare avanti, avere una vita sentimentale e sociale fuori dalle quattro mura universitarie e correre, correre perché il mondo non aspetta né me né te. E non basta provare a trovare un equilibrio per conciliare la necessità di prendere tempo e questo mondo che, invece, non ci aspetta, ma dobbiamo anche riuscire a reggere il peso del confronto con cugini, parenti, sorelle, colleghi che si sono laureati in tre anni, che ce l’hanno fatta e noi, invece, no.
L’università per me è stata quella cosa che è capitata in mezzo a due grandi tragedie della mia esistenza. E no, in quelle occasioni non ho avuto modo di premere il pulsante stop, anche se mi avrebbe fatto molto comodo. Mi sono iscritta al mio attuale corso di studi nel 2019, poco dopo aver scoperto che mia sorella aveva un tumore metastatico. Nel 2020, mia sorella si è spenta, proprio in mezzo alla pandemia e, in quel momento, in cui la mia vita era cambiata per sempre, non ho potuto fermarmi. Non ho potuto vivere il mio dolore, non ho potuto affrontarlo.
Una cosa ricordo vividamente: diedi l’ultimo esame della sessione dieci giorni dopo la sua morte. Ottenni un 26 che bruciò per mesi sulla mia coscienza. In quel momento non pensavo a come fossi riuscita a studiare, nonostante tutto, non mi diedi una pacca sulla spalla ma inveii pesantemente contro me stessa perché quello era un misero 26 preso in un esame in cui il voto medio era 30.
Neanche di fronte alla morte sono riuscita a mettere da parte la pressione universitaria, probabilmente spaventata dalle voci che continuavano a urlarmi nelle orecchie che ero in ritardo, che stavo perdendo tempo, che il mondo va avanti e non mi aspetta. E c’era una cosa che non volevo assolutamente: restare indietro, essere una perdente. Per molto tempo mi sono sentita davvero così, una buona a nulla.
Dopo un semestre intero in cui non sono riuscita a dare nemmeno un esame dilaniata dal binge eating e dalla depressione, ricordo di essere andata dai miei amici e di aver comunicato loro che volevo fare la rinuncia agli studi. Che non ce la facevo più, che la notte mi mancava il respiro, che sentivo di aver perso troppo tempo che non avrei più recuperato. Che loro erano avanti e io, invece, ero rimasta ferma, immobile, paralizzata dalle mie sventure. E, mentre pronunciavo quelle parole e lo facevo con i miei amici perché non avevo il coraggio di pronunciarle con la mia famiglia, mi sentivo vuota.
Poi, non so bene come, ho ricominciato a studiare, a mettermi in carreggiata. Sono tornata a Pisa, mi sono impegnata. A maggio dello scorso anno mi mancavano cinque esami alla laurea, avrei potuto laurearmi non solo in tempo ma persino in anticipo. Sembrava andare tutto bene, poi ho ricevuto l’ennesimo pugno allo stomaco. Mio padre ha avuto un attacco di cuore e non ce l’ha fatta, io ero a ottocento chilometri di distanza. Silenzio, sipario.
Di quell’esperienza ricordo un dettaglio singolare. Dopo aver affrontato il volo più brutto della mia vita per assistere alla veglia e al funerale di mio padre, arrivata in casa, sono stata accolta dai miei parenti che prima di chiedermi come stessi mi hanno chiesto, come se fosse la cosa più normale del mondo, quando avevo intenzione di laurearmi.
Mio padre, in una bara, in casa mia. Io, distrutta, ripensavo all’ultima volta che mi aveva sorriso e al fatto che non avrebbe potuto farlo più mentre mi veniva chiesto insistentemente della mia carriera universitaria. Domanda che mi è stata posta incessantemente nei mesi successivi e anche adesso, anche adesso che scrivo. Adesso che sono figlia di una vedova che con una misera pensione mi mantiene all’università. Adesso che so che non potrò laurearmi in tempo e che dovrò pagare una mora per non essere stata un’eccellenza.
Dovrò pagare una mora per essere stata sfortunata, perché all’ennesimo pugno in pieno viso ho scelto la mia sanità mentale piuttosto che la laurea. Perché ho scelto di ascoltarmi, dopo la morte di mio padre, di prendere del tempo per me, di iniziare un percorso serio di psicoterapia, di chiedere aiuto quando mi sono resa conto di non riuscire più ad andare avanti così.
E io lo conosco bene il senso di vuoto quando vieni bocciato a un esame. O quando ottieni un voto molto inferiore rispetto alla tua media. Così come conosco il senso d’inadeguatezza e d’impotenza che provi quando, stremato dagli eventi, tenti di studiare e non ci riesci mentre per gli altri sembra la cosa più semplice e naturale del mondo. Studiare, prendere bei voti, laurearsi, essere un’eccellenza. E i tuoi genitori fanno sacrifici perché magari per poche centinaia di euro in più nella tua attestazione ISEE vieni considerato ricco e quindi non puoi accedere alle borse di studio. E la tua famiglia paga, ti mantiene, fa una vita ristretta per poterti permettere di realizzare i tuoi sogni o, comunque, di avere un futuro migliore.
Credimi, lo so. Lo conosco bene quel senso di vuoto. Sono figlia di una donna vedova che con una piccola pensione mi mantiene all’università perché non posso accedere alle borse di studio. Lo so cosa si prova. E so anche che i sensi di colpa sono una brutta bestia. Così come so che in quel freddo bagno universitario con una sciarpa al collo potrei esserci stata io. Io che più volte ho pensato alle parole da scrivere sul biglietto, vergogna fra le prime. Io che sono sicura che queste stesse emozioni le hanno provate e continuano a provarle in molti.
Io che adesso sono qui ma che sarei potuta scomparire in un freddo mercoledì mattina in un anfratto della mia sede universitaria. Io che vivo lo stigma di non essere stata un’eccellenza e come me tanti altri. Io intrappolata nella mediocrità che ora mi sembra una condizione insopportabile perché sono cresciuta con la convinzione del devi essere migliore di tutti gli altri. Ma oggi mi chiedo cosa significhi essere migliore degli altri e se l’essere peggiori dipenda da un 30 mancato o da una laurea triennale presa con sei mesi o forse un anno di ritardo.
Io ho scelto me stessa e la mia salute mentale. Ma tanti altri non hanno avuto il privilegio di scegliere. Ma allora la soluzione qual è? Ne esiste davvero una per evitare che gesti estremi siano compiuti, spinti dalla disperazione o dall’esasperazione?
Viviamo in un mondo improntato sulle narrazioni tossiche, in un Paese in cui per vendere qualche copia in più, troppo spesso, non si presta attenzione ai messaggi che si veicolano. Non sto dicendo che non è giusto riconoscere i traguardi altrui, ciò che sto dicendo è che lo si può fare anche senza sminuire noi altri comuni e mediocri mortali. Sto dicendo che ogni percorso è un percorso a sé stante e che se non avessi perso mia sorella e mio padre, se avessi avuto una vita meno turbolenta, probabilmente mi sarei laureata anche io in tre anni e non in quattro. Sto dicendo che non ha senso confrontare il mio cammino con quello altrui. Sto dicendo che né io né voi siamo un esame andato male.
Sto dicendo che dovrebbe essere dovere delle istituzioni competenti porre maggiore attenzione alla sanità mentale, attraverso campagne di sensibilizzazione volte a veicolare il messaggio che è ok chiedere aiuto quando ci si sente sopraffatti dalle situazioni e dalle emozioni. Che sì, è vero che ci sono gli psicologi accademici ma che garantiscono una sola seduta, massimo due, che per un ateneo che ospita più di cinquemila studenti non è nulla. Che io ho avuto la fortuna di potermi permettere di iniziare un percorso a pagamento rinunciando a tanto altro, scegliendo me stessa e il mio bene, ma che la cura della salute mentale dovrebbe essere garantita a tutti, grandi e piccini. Perché non si sceglie di stare male. Capita e basta.
Sto dicendo ma, soprattutto, sto chiedendo, di smettere di demonizzare la normalità.
Contributo a cura di Mariaconsuelo Tiralongo