Eugénio de Andrade, pseudonimo di José Fontinha, nasce il 19 gennaio 1923 a Fundão, nel Portogallo centrale. Trasferitosi con la famiglia a Lisbona, diventa precoce frequentatore di biblioteche e lettore onnivoro. Inizia a scrivere versi da adolescente, pubblicando Narciso, la sua prima poesia, all’età di sedici anni. A Coimbra, dal 1943, frequenta tra gli altri Miguel Torga, medico, oppositore del regime e scrittore più volte in odore di Oscar, ed Eduardo Lourenço, critico d’arte e raffinato pensatore portoghese. Torna a Lisbona nel 1947, entrando nella pubblica amministrazione come funzionario del servizio socio-sanitario. Dal 1950 si stabilisce a Porto, dove morirà il 13 giugno 2005.
Mantenne sempre una postura artistica indipendente rispetto alle varie correnti letterarie contemporanee nel corso di oltre cinquant’anni di attività poetica. Il suo nome, infatti, non si trova legato a nessuna delle riviste che segnarono, in quanto luoghi di riflessione sulle opzioni e tradizioni estetiche, la poesia contemporanea, sebbene de Andrade abbia pubblicato As palvras interditas (Le parole interdette) nella collettanea Cancioneiro Geral (Canzoniere generale) e collaborato con numerose pubblicazioni letterarie quali i Cadernos de Poesia (Quaderni di poesia) con Sophia de Melo Breyner Andresen, Jorge de Sena, Ruy Cinatti, alcuni tra i più grandi poeti portoghesi del Novecento.
La raccolta rivelazione, As mãos e os frutos (Le mani e i frutti), è pubblicata nel 1948 e incontra subito il favore della critica. Negli anni Cinquanta e Sessanta, viaggia ripetutamente in Spagna, dove intrattiene rapporti con artisti emergenti della cultura spagnola e in particolare con i poeti della Generazione del ’27, tra questi García Lorca di cui sarà anche traduttore. «Non sono un traduttore di professione. Traduco solo per gusto. Quando si traduce una poesia, mi sembra fondamentale che il risultato sia un’altra poesia. Solo allora potremo parlare di traduzione».
Aveva tradotto anche la poeta greca Saffo: «Il mio interesse per la cultura greca è emerso fin dalla tenera età. Esiodo, Omero, Sofocle, Saffo, i presocratici sono fonti a cui mi sono dissetato molte volte. Ho anche assunto il rischio di tradurre la poesia di Saffo, qualcosa che avevo sognato per molti anni. Un giorno vi ho messo mano. Ho lavorato febbrilmente per quindici giorni, come se fosse una creazione personale. Il motivo però era un altro: mi stavo impossessando di qualcosa che mi era sempre appartenuto».
A sua volta, dopo Fernando Pessoa, Eugénio de Andrade è stato il poeta più tradotto della lingua portoghese. E uno scrittore assai prolifico: il suo catalogo conta oltre quaranta volumi tra poesia, prosa e saggistica. La qualità straordinaria di tanta produzione gli ha procurato riconoscimenti accademici e numerosi premi tra cui il Carrefour des Littératures dell’Università di Bordeaux nel 2001 e, nello stesso anno, il Prémio Camōes.
Considerato da alcuni espressione di una specie di imagismo portoghese, la poesia di Eugénio de Andrade si caratterizza per esattezza di parola e ritmo, per l’emozione che scaturisce dalla frase formulata in una lingua intransitiva, autosufficiente, renitente alla parafrasi. Una poesia-música, secondo la definizione del poeta coevo Camilo Pessanha. Le figurazioni sono quelle di un paradiso puramente terrestre, emanazione del desiderio, la cui percezione è resa possibile dalla trasparenza del ritmo orale del verso, ordinato in metafore diverse per rappresentare lo stesso insieme di elementi mitici fondamentali: la terra densa con i frutti e i corpi, l’acqua di fiume o marina, l’aria e tutto ciò che è volatile, il fuoco, l’ardore o la luce di un aprile adolescente, di un’estate a picco o di un autunno dorato che si riversa, si sdoppia in immagini di perduranza aprilina giovanile (Saraiva-Lopes).
José Saramago disse, a proposito della poesia di Eugénio de Andrade, che si trattava di una poesia del corpo cui si arriva attraverso una continua purificazione. La purificazione era per il poeta un lavoro lungo, duro ed essenziale. «Tutto in me è segnato da una religiosità rispetto alla poesia. Ci lavoro a lungo, attento al peso delle parole, al parlare materno, senza alcuna certezza. Non ho angeli che mi dettano i versi, e la creazione di una poesia può impiegare un mese. È come la storia della virgola di Yeats». (1978, intervista all’Expresso).
Avrebbe cent’anni, oggi. Lui, che nel 1978 disse «Tra vent’anni spero di essere morto e sepolto. Penso che la vecchiaia sia una cosa orribile», sarebbe vissuto ancora ventisette anni, un’eccedenza di vita asfissiante. Usciranno altri due libri, riceverà ancora riconoscimenti prestigiosi e il Premio Pen Clube Português. E farà in tempo a leggere negli Ensaios sobre Eugénio de Andrade (Saggi su Eugénio de Andrade) di Luís Miguel Queirós (2003), che molte delle sue migliori poesie sono state scritte negli anni Novanta. Ovvero, in quell’eccedenza di vita indesiderata. Del resto, in quella stessa intervista del 1978, Eugénio de Andrade disse che erano passati anni senza scrivere una riga e che la poesia è legata ai momenti di crisi, non di pienezza. «Scrivo quando non ce l’ho».
URGENTEMENTE
É urgente o amor.
É urgente um barco no mar.
É urgente destruir certas palavras,
ódio, solidão e crueldade,
alguns lamentos,
muitas espadas.
É urgente inventar alegria,
multiplicar os beijos, as searas,
é urgente descobrir rosas e rios
e manhãs claras manhãs.
Cai o silêncio nos ombros e a luz
impura, até doer.
É urgente o amor,
é urgente permanecer.
URGENTEMENTE
È urgente l’amore.
È urgente una barca in mare.
È urgente distruggere certe parole,
odio, solitudine e crudeltà,
alcuni lamenti,
molte spade.
È urgente inventare allegria,
moltiplicare i baci, i raccolti,
è urgente scoprire rose e fiumi
e mattine limpide.
Cade il silenzio sulle spalle e la luce
impura, fino a dolere.
È urgente l’amore, è urgente
Restare.
Contributo a cura di Iaia de Marco