Siamo abituati a considerare la violenza qualcosa di tangibile. Nel nostro immaginario, si tratta di un comportamento fisicamente aggressivo che lascia segni ben riconoscibili sulla pelle. Non ci pensiamo che spesso sia composta di aggressioni invisibili, di parole taglienti cariche di significati ancestrali, di pratiche considerate ordinarie e talvolta addirittura necessarie, ma esercitate senza consenso.
Spesso la violenza, non intesa nel suo senso universale ma calata in alcune delle sue declinazioni sociali, ha radici che affondano in profondità, fino ad arrivare al nucleo di quei sistemi di prepotenza che per millenni hanno plasmato la società. E la violenza ostetrica, invisibile quanto dolorosa, indimostrabile quanto traumatica, è l’esempio perfetto di prevaricazione sociale.
Erano anni che leggevo testimonianze di donne traumatizzate, che hanno vissuto esperienze di parto e post partum brutali. Erano anni che raccoglievo racconti del terrore, incapace di trovare denunce o condanne tangibili per dare sostanza a quelle storie terrificanti. Solo un filo comune si nascondeva dietro ognuna. Dalle prevaricazioni verbali alla violenza fisica, dalle offese di matrice patriarcale ai trattamenti medici negati, c’era sempre la stessa immagine: la convinzione che le madri, le donne, debbano sacrificarsi per i propri figli, che la loro vita esista solo per loro e che non ci sia sofferenza o desiderio, condizione medica o psicologica che possa anteporre il benessere materno a quello della prole.
Non pensavo, in quegli anni, che parlarne sarebbe dipeso da un caso di cronaca inaccettabile che ha visto la tragica morte di un bambino causato della violenza invisibile subita dalla madre.
Denunciare la violenza ostetrica è difficilissimo. Molto spesso certe procedure non sono riportate dalle cartelle cliniche e le donne con racconti di violenze fisiche e verbali non hanno testimoni che possano confermarle. Manca, inoltre, una normativa che chiarisca cosa sia la violenza ostetrica e ginecologica, che decreti che determinate pratiche invasive non possono essere considerate di routine e operate senza il consenso informato della partoriente. E che, anche dopo il parto, l’imposizione di pratiche considerate utili non ha alcun beneficio in assenza del consenso e della volontà della madre.
Perché una donna stanca, con ore di travaglio alle spalle, che non dorme da giorni, non può essere abbandonata a se stessa con una creatura di cui prendersi cura, solo perché tanto le verrà naturale. È molto più naturale che accadano incidenti, se la salute e la volontà, se i diritti e la libertà di decidere per se stessa di una madre continuano a essere calpestati.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce fondamentale l’assistenza alle donne da parte del sistema sanitario durante le fasi finali della gravidanza e i primi giorni di vita del bambino. Eppure, sono tantissime le storie di sofferenza, di trattamenti del dolore negati, di pratiche invasive operate senza consenso e di violenza verbale pregna di discriminazione nei confronti del genere femminile. Nel 2014, l’OMS ha emesso un documento relativo agli abusi durante l’assistenza al parto nelle strutture ospedaliere, individuando una serie di atteggiamenti che rientrano nella definizione di violenza ostetrica. Si va dagli abusi fisici e verbali fino alle procedure mediche non autorizzate né, perlomeno, annunciate prima di essere praticate per mettere al corrente le pazienti di cosa i loro corpi stanno per subire. Proseguono poi con la mancanza di riservatezza, il rifiuto di offrire terapie per il dolore fino ad arrivare agli insulti e alla mortificazione.
Save The Children definisce la violenza ostetrica come un insieme di comportamenti che hanno a che fare con la salute riproduttiva e sessuale delle donne, come l’eccesso di interventi medici, la prestazione di cure e farmaci senza consenso o la mancanza di rispetto del corpo femminile e per la libertà di scelta su di esso. Tre concetti – salute sessuale, rispetto del corpo e libertà – che sappiamo essere ancora ignorati all’interno della nostra società e la cui assenza decreta ben più di un tipo di violenza di genere. Perché è esattamente di questo che si parla anche nel caso della violenza ostetrica, del ruolo delle donne nella società, del loro naturale destino di madri e del dolore, del sacrificio, della sofferenza necessaria per essere effettivamente genitrici, mamme, donne.
Non vuole allattare per non rovinarsi il seno, perché le donne per i propri figli devono sacrificare tutto, dal proprio aspetto al proprio benessere, alla propria salute. Solo chi partorisce in modo naturale è una vera madre, perché se non soffri dei dolori atroci del parto, che madre sei. E quindi vuoi fare l’epidurale? Una vera donna non ha paura della sofferenza, perché esistono antidolorifici per qualunque cosa, perché l’essere umano ha inventato tecnologie di qualunque tipo per eliminare il dolore dalle nostre vite, ma il parto no, quello deve fare male, le madri per essere tali devono soffrire, altrimenti non vale. Dopotutto sta scritto pure nella Bibbia.
Sono solo alcune delle storie che ho sentito, non nei racconti di persone sconosciute, quelle storie sono anche peggiori. Sono parole sentite vicino a me da sempre e che mi hanno dimostrato che non esiste bolla di avanguardia e modernità in grado di difenderci dalla narrazione che ruota intorno al parto. Perché si esaurisce tutto lì, il ruolo della donna nella nostra società. Di storie terrificanti di cesari o epidurali negati, di esplorazioni vaginali senza consenso, di manovre invasive, dolorose, taglienti non dichiarate, di offese brutali e gratuite, se ne trovano milioni in giro. E di donne abbandonate alla loro sofferenza, senza una parola di conforto, senza un aiuto dopo un parto traumatico, se ne cade il mondo.
Era forse quasi intuibile che prima o poi qualcuno sarebbe morto per questo. O, magari, di madri ne sono morte parecchie, ma non ne abbiamo alcuna notizia, perché se la violenza ostetrica uccide le donne non importa a nessuno. Solo la tragica scomparsa di un bambino può scatenare l’opinione pubblica su un tema così grave e pervasivo di cui non si è mai parlato prima, sebbene le dimensioni del problema rendano ancora più assordante l’assenza di informazioni a riguardo. Secondo un’indagine Doxa del 2017, circa il 21% delle madri italiane ha subito una forma di violenza ostetrica durante il parto. Il 41% ha dichiarato di essere stato vittima di pratiche lesive alla dignità psicofisica. E si stima che siano 1,6 milioni le donne sottoposte a episiotomia – l’incisione del perineo – senza consenso informato.
Perché? Perché la maternità è fatta di sofferenza e non esiste scampo. Perché la naturalità è l’ossessione del nostro mondo artificiale, fatto di cose costruite, di macchine che fanno il lavoro per noi, di strumenti ideati dalla mente umana che, per sua natura, si circonda di artifici per vivere meglio dei suoi cugini animali. Ma su certe questioni non si può prescindere dalla naturalità e i bambini devono nascere come madre natura ha deciso, da un uomo e una donna, e dalla sofferenza di quest’ultima.
La cosiddetta cultura del parto, dopotutto, è figlia della stessa cultura che relega le donne al lavoro di cura, che si aspetta che la maternità sia desiderata da ognuna, che rende stupri e femminicidi pratiche all’ordine del giorno e che causa la discriminazione di genere in ogni sua forma. Perché le donne sono a questo mondo solo per essere madri, per garantire la sopravvivenza della specie e della stirpe. E perché se per farlo devono soffrire, mettere i propri diritti e la propria libertà in secondo piano, se devono sacrificare la propria vita, il proprio corpo e la propria volontà, non importa a nessuno.