Se c’è una cosa che qui in carcere sappiamo fare è aspettare: aspettiamo i colloqui, aspettiamo che ci vengono a prendere le guardie, aspettiamo l’ora d’aria, aspettiamo di uscire: questa è una delle frasi che mi hanno colpito di più guardando il film di Riccardo Milani Grazie ragazzi – in questi giorni nelle sale italiane – perché descrive efficacemente quello che è il tempo in carcere. Un tempo di attesa, spesso di vuoto e tormento, che non persegue neppure uno dei fini per cui è stato pensato.
Nel tempo della reclusione il pensiero corre spesso agli affetti fuori, ai figli che non si possono abbracciare, agli amori che non si possono vivere, un’afflizione ulteriore rispetto alla privazione della libertà, la sola restrizione che il nostro ordinamento prevederebbe. Una pena anche per chi non ha commesso alcun reato e che invece dovrebbe essere tutelato per la particolare condizione di fragilità che si trova ad affrontare.
L’articolo 15 della legge sull’ordinamento penitenziario inserisce tra i cosiddetti elementi del trattamento l’agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno e rapporti con la famiglia. Non può esserci infatti risocializzazione se quella società di cui le persone detenute fanno parte la si conosce appena: il tempo dentro scorre lento, mentre fuori il mondo cambia e ci si troverà impreparati all’uscita. Ma, soprattutto, mantenere vivi i rapporti con i propri cari consentirebbe di affrontare un percorso rieducativo migliore e con più serenità. Invece, le occasioni di sentire e vedere le persone a cui si vuol bene sono pochissime, in luoghi spesso insalubri e angusti e sicuramente non adatti a dei bambini. Insomma, tra le disposizioni di legge e la realtà c’è un abisso, eppure gli affetti restano spesso l’unico barlume di speranza per chi sconta una pena, la sola ragione per cui si continua ad aspettare, ancora e ancora. E così in Grazie ragazzi si mette in scena l’arte dell’attesa, si partecipa al corso di teatro per farsi vedere dai propri cari, per vedersi riconosciuti una volta tanto non per il reato che si è commesso.
E se il diritto all’affettività inteso come diritto a coltivare gli affetti e i rapporti con la propria famiglia mentre si è sottoposti a reclusione è un argomento molto complicato da affrontare, quasi impossibile è parlare di diritto alla sessualità in carcere. Molteplici sono stati i tentativi negli anni di introdurre all’interno della legge sull’ordinamento penitenziario la possibilità di effettuare, una volta al mese o con una cadenza da stabilire, i cosiddetti colloqui intimi in unità abitative non soggette né a controllo audio né video. E potete ben immaginare quanto la nostra classe politica in tali circostanze di discussione si sia dimostrata retrograda.
Appena pochi mesi fa, in occasione della presentazione di due disegni di legge da parte dei Consigli regionali della Toscana e del Lazio che prevedevano, all’interno di un più ampio progetto di riforma che riguardasse l’affettività latamente intesa – e, con essa, la necessità di luoghi idonei per gli incontri con i propri cari, in particolare se minori –, la costruzione di unità abitative adatte alle relazioni personali e familiari, e non solo all’incontro fisico, si scatenò un vero putiferio.
Per la costruzione di simili strutture fu infatti chiesto uno studio di fattibilità al Dipartimento affari penitenziari, insieme a una stima approssimativa dei costi. Quando si diffuse la notizia, trasmessa come sempre in maniera errata e superficiale, si parlò di casette del sesso e il Ministero della Giustizia corse ai ripari pubblicando un comunicato stampa dal titolo emblematico: Affettività, nessuna iniziativa ministeriale. Sappiamo bene che non c’era stata alcuna iniziativa ministeriale né alcuna discussione o riflessione al riguardo, come era avvenuto per la proposta di legge presentata da Antigone nel 2018 e per tutte quelle presentate fin dal 1999 da Alessandro Margara, promotore della consistente riforma penitenziaria del 1986 conosciuta come Legge Gozzini.
Eppure, un simile diritto è sancito in trentuno Paesi europei, oltre che in numerosi Paesi extraeuropei: il fine è quello di tutelare l’affettività in tutte le sue forme, compresa la sessualità, che non solo nel nostro ordinamento non viene presa in considerazione, ma addirittura viene paragonata a un lusso che certamente le persone detenute, per i loro errori, non possono permettersi. Non sono mancate poi levate di scudi, ogni volta che il tema è ricomparso, da parte dei sindacati di polizia penitenziaria, spalleggiati veemente da numerosi rappresentanti politici. Gli agenti si sono detti mortificati, definendosi guardoni del sesso e il diritto alla sessualità in carcere è stato etichettato come inutile e demagogico, oltre che offensivo per chi ha subito un reato. Ma come può la tutela di un diritto offendere la vittima di un reato, se non in una becera logica di vendetta?
Una simile lacuna contrasta con numerosissime pronunce comunitarie e sollecitazioni a intervenire sul tema sono arrivate in questi anni dal Consiglio d’Europa, dal Parlamento Europeo e dalla stessa Corte Costituzionale nel 2012. Inoltre, basti pensare che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo tutela espressamente, all’articolo 8, la vita privata e familiare, oltre a sancire il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui l’astinenza sessuale coatta è sicuramente espressione. Quest’ultima infatti non è altro che un’afflizione ulteriore rispetto alla sola restrizione della libertà personale che rischia di avere ripercussioni sulla salute fisica e mentale di chi è recluso.
E così il Giudice di sorveglianza di Spoleto, appena pochi giorni fa, ha sollevato una questione di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale perché il divieto di svolgere colloqui intimi, derivante dall’applicazione dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario – che parla di colloqui svolti sotto il controllo a vista – confliggerebbe con la Costituzione e con gli stessi principi che tutelano la famiglia (anche quella di un condannato, che piaccia o no).
«Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta» ha dichiarato il giudice Gianfilippi, con cui non possiamo che concordare: laddove esigenze di sicurezza non lo impediscono, un simile proibizionismo non ha altro fine se non quello di punire e umiliare chi sta dietro le sbarre e con lui o lei il rispettivo partner, a cui viene interdetto l’accesso a quella stessa sessualità.
Le Regole penitenziarie europee stabiliscono che le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali. E cosa ci sarebbe di normale in una vita vissuta senza poter abbracciare i propri cari, con cui si può parlare solo sotto l’occhio vigile altrui?
Come ci ricorda Adriano Sofri, la mutilazione della sessualità contraddice ogni bella parola sulla restituzione dei detenuti alla società: non è altro che una disumanizzazione e un’infantilizzazione di chi è recluso che tradisce non solo la promessa rieducativa, ma anche l’imperativo divieto di trattamenti inumani e degradanti, a cui però non può non ricondursi l’astinenza sessuale coatta e l’esercizio della propria affettività con la privazione perenne di una parte della propria personalità.
Mai nessun disegno di legge che volesse introdurre diritti sul tema ha completato il proprio iter, l’ingiustizia è sotto gli occhi di tutti e intanto siamo terribilmente indietro, sulla strada verso la civiltà.