È uno di quelli che si definiscono arresti eccellenti quello di Matteo Messina Denaro, il latitante più pericoloso d’Italia, avvenuto lunedì mattina a Palermo. Dopo trent’anni, il boss di Cosa Nostra è stato raggiunto dalle forze dell’ordine in una clinica del capoluogo siciliano, dove si recava regolarmente per sottoporsi a degli interventi di chemioterapia, e consegnato alla giustizia. La mano armata delle stragi che costarono la vita a Falcone e Borsellino, oltre che il principale responsabile di uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese, termina – finalmente – la sua corsa a ostacoli con lo Stato italiano.
La notizia – come giusto – trova subito spazio sulle prime pagine di tutti i giornali nostrani e non solo, e riscontra grande attenzione anche delle agenzie estere, un tono quasi unanime a celebrare il lavoro della magistratura italiana e a invocare giustizia nei riguardi delle vittime. Quasi, appunto. Non tutte le voci della stampa e dell’opinione pubblica si allineano, infatti, all’euforia manifestata prontamente dalla Premier Giorgia Meloni o dall’ex Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che, quando un paio di manette si stringono ai polsi di qualsivoglia criminale, gode oltre ogni umana comprensione. Come mai?
Il solo fatto che un sentimento di sfiducia si accosti a un evento di così straordinaria portata è sintomo di quanto la politica, le istituzioni e persino la giustizia del nostro Paese abbiano smarrito la strada che porta al cuore delle persone, al loro istinto di sentirsi parte di una comunità, anziché – come accade – pedine di un gioco mosso da poteri più forti, spesso coincidenti tra Stato e mafia. Bollare tutto con la solita retorica del qualunquismo sarebbe un errore che questo giornale non intende commettere, lo stesso che i partiti compiono più o meno dall’inizio della latitanza di Messina Denaro. Dietro lo scetticismo che accompagna qualche collega non allineato e gran parte delle persone che dibattono oggi sui social c’è la storia di una nazione che non ha saputo dimostrarsi unita né nella lotta alla mafia né a garanzia della tutela del cittadino.
Attorno all’arresto di Matteo Messina Denaro sorgono tanti dubbi e si dipanano nuvole dense. Si può parlare di vittoria dello Stato o siamo davanti all’ennesima farsa? I legami sistemici tra le mafie e la classe dirigente di questo Paese non sgomberano il campo dagli equivoci. In qualunque altra nazione, una notizia come quella di lunedì scorso sarebbe stata salutata come una grande vittoria politica e istituzionale. Qui, invece, tutto finisce sotto la lente d’ingrandimento del sospetto.
Innanzitutto, chi scrive non crede che piegarsi a una narrazione emotiva dell’accaduto sia una maniera corretta e professionale di trattare la cosa. Sono troppi i colleghi che all’analisi dei fatti preferiscono la spettacolarizzazione dell’arresto, la trama della vita del boss dipinto come una fiction, insomma un racconto superficiale che non indaga le responsabilità di quanti, in trent’anni, hanno condotto – o depistato – le indagini. Che valore ha, nel 2023, l’arresto di Matteo Messina Denaro? Si può davvero parlare di colpo inferto alla mafia o il boss è stato consegnato alle forze dell’ordine perché, di fatto, già sostituito nelle gerarchie del clan?
Difficile che qualcuno offrirà risposte, motivo per cui analizzare i (pochi) fatti a nostra disposizione diventa un obbligo morale. Almeno per noi dell’informazione libera e non veicolata. Sinceramente, poco importa che Messina Denaro sia stato catturato a Palermo, che conducesse una vita normale da ormai tantissimi anni, seppur sotto pseudonimo: nutrire dei dubbi non deve coincidere con il semplificare un lavoro delicatissimo di indagini che non potevano risolversi con una retata qualsiasi, come tanti ironizzano oggi che il latitante, si è scoperto, era solito recarsi al bar per la colazione o in ospedale per degli accertamenti.
Piuttosto, va presa in considerazione l’intervista concessa a Massimo Giletti da Salvatore Baiardo, uomo di fiducia del boss Graviano, che soltanto due mesi fa ipotizzava una prossima consegna di Matteo Messina Denaro perché afflitto da una grave malattia oncologica. In diretta su La7, Baiardo sottolineava come la trattativa Stato-Mafia che aveva consegnato alla giustizia Totò Riina nel 1993 avrebbe potuto ripetersi per assicurare il latitante più pericoloso d’Italia allo Stato chissà in cambio di qualche scarcerazione eccellente, a maggior ragione all’alba di una necessaria riforma della giustizia che coinvolgerà proprio il regime di 41bis. Coincidenze? Forse. Sta di fatto che la ricostruzione del pentito sembra combaciare esattamente con quanto visto su tutte le edizioni speciali dei telegiornali appena due giorni fa.
L’eventualità di questo losco disegno spaventa perché nello storico dei processi della Trattativa figurano esponenti di alcuni partiti dell’attuale Parlamento che ancora sarebbero liberi di operare dagli scranni più alti della nostra democrazia. I protettori delle mani armate di Cosa Nostra, i cosiddetti mandanti morali, quando perderanno la centralità del loro potere? Stando così le cose, la risposta è esattamente tutto quanto contribuisce al dipanarsi dei sospetti di cui sopra.
Mostrare Matteo Messina Denaro in manette – figurativamente parlando, dato che la polizia non ha mai stretto alcunché ai polsi del boss – è l’elemento utile a chi ancora si nasconde tra le istituzioni per continuare a operare in colletto bianco e giacca di seta, come gli arresti anche recenti che coinvolgono membri di amministrazioni locali di Lega e FdI stanno a dimostrare.
Pensare alla mafia, alla camorra o alla ’ndrangheta come allo stesso apparato che spaventava l’Italia nei primi anni Novanta è tutto quanto fa comodo al sistema che, invece, prolifera tra i palazzi e che cambia per non cambiare mai niente, che evita scientemente di intervenire alla radice dei problemi, ossia nel tessuto sociale delle città, tra il degrado economico e la mancanza di punti fermi come istruzione e lavoro. Mafia è sinonimo di disoccupazione, di lavoro nero, di caporalato, poi di appalti, marche da bollo, contratti, elezioni.
Per tutti questi motivi è assurdo, ma comprensibile, non riuscire a gioire della cattura di Matteo Messina Denaro, perché la storia d’Italia ci ha abituato a credere che tutto, prima della mossa eccellente, sia stato già programmato e messo al sicuro da chi deve preservare lo stato di cose vigente. Per tutti questi motivi il nostro Paese non è sinonimo di Casa Nostra, ma Cosa Nostra. E, forse, continuerà a esserlo.