Adriano Celentano, Raffaella Carrà, Maria De Filippi. Regimi dittatoriali, arresti arbitrari e socialismo balcanico. Cos’hanno in comune la scintillante vetrina dei media italiani e i valzer politici dell’Est Europa? Ce lo racconta Vito Saracino, autore di Ciao Shqipëria! Il secolo dei media nei rapporti culturali italo-albanesi (Besa muci, 2021), un saggio brillante che passa dalle luci del varietà italiano alle ombre del partito comunista albanese.
Presupposto per i non addetti ai lavori: i giornali e le radio italiane hanno cominciato a serpeggiare in Albania sin dal Governo Crispi per poi consolidarsi definitivamente con l’occupazione fascista del 1939. Mussolini creò perfino un Ministero della Cultura Popolare a Tirana, con l’intento di diffondere il più possibile gli ideali di regime chiudendo i quotidiani nazionali in nome di un progetto di monopolizzazione totale dei media albanesi.
L’autore analizza nel dettaglio i “cavalli di Troia” usati dal MinCulPop per l’italianizzazione-fascistizzazione dell’Albania (Radio Tirana, le biblioteche nazionali e i cinegiornali dell’Istituto Luce), ma indaga anche la nascita di un forte legame tra gli albanesi e i meridionali italiani. I due popoli si sentono sulla stessa barca: i primi perché imprigionati nel ruolo di “semi-colonia”, i secondi perché trattati anch’essi dal regime come figli di un dio minore.
Dopo la caduta di Mussolini, però, le cose cambiarono. Enver Hoxha, leader carismatico del Partito del Lavoro, prese il potere e diede vita in Albania a una delle dittature più dure d’Europa. Il regime socialista durò dal 1945 al 1990 e Hoxha cercò a tutti i costi di recidere il cordone ombelicale che il fascismo aveva creato con il suo Paese. L’Italia rappresentava l’Occidente, il capitalismo e tutti i valori che l’Albania doveva lasciarsi alle spalle.
La propaganda anti-italiana diventò fondamentale. I film prodotti dal partito socialista – e qui le cose si fanno interessanti – cominciarono a descriverci in modo diverso. All’Istituto Luce si sostituì il Kinostudio, una casa cinematografica sotto il diretto controllo del partito. Si cambia rotta e l’italiano diventa, finalmente, il cattivo. Forse non il cattivo cattivo, quel ruolo viene lasciato ai nazisti, ma un cattivo buffo e ridicolo.
Nasce il tropo dell’italiano mangiatartarughe: i fascisti vengono ritratti come pigri, stupidi, ghiotti di creature lente e con il guscio. La stessa Italia viene definita breshkamadhe, “patria delle tartarughe”, patria di un popolo che pensa solo a bere e cantare. Nei film sulla resistenza partigiana schipetara, i fascisti si trasformano in macchiette stereotipate che strappano grasse risate agli albanesi.
In Italia, però, si faceva tutt’altro che mangiare tartarughe. Gli anni Sessanta segnarono un punto di svolta nella televisione italiana: dal Carosello ai Festival di Sanremo di Mike Bongiorno, dallo Studio Uno al lancio di Mina e Celentano. Quei canali in bianco e nero esprimevano un varietà coloratissimo che negli anni Settanta prese ancor di più il volo, tra quiz a premi e l’ombelico scoperto della Carrà.
Era facile in Albania captare quelle frequenze. I più giovani vennero attratti da quel luccichio, dalle minigonne e dai capelli tinti, dai cantanti libertini e colorati che si agitavano sugli schermi. L’idea dell’italiano fascista e mangiatartarughe venne sostituita da un’immagine molto più seducente e scintillante, che cominciava a minare la propaganda socialista. Insomma – come ci racconta Saracino – attraverso le pubblicità della Scavolini e delle Banane Chiquita, gli albanesi sognavano l’Occidente.
Hoxha non sottovalutò il problema. Sapeva che il desiderio delle masse andava tenuto a bada e che nulla come il capitalismo era in grado di attrarlo. Per questo, cominciò la guerra delle antenne: il partito cercò di impedire la ricezione dei canali italiani creando interferenze e tenendo sotto controllo chiunque possedesse un televisore. Hoxha non pensò, però, che quando si pone un divieto l’attrazione per la cosa vietata diventa ancora più forte.
Nel saggio troviamo la testimonianza diretta di Samir Maloku, l’ingegnere antennista che, nonostante le interferenze, riusciva a sintonizzare le antenne sulle frequenze italiane. Maloku veniva chiamato di casa in casa e, perfino quando venne spedito al confine, tra le montagne, gli albanesi riuscironùo a scovarlo per chiedergli le sue miracolose antenne. Il suo destino fu il carcere duro, in cui si fece coraggio proprio cantando la musica italiana.
In questo periodo di chiusura quasi paranoica bastava portare un taglio di capelli alla Carrà per essere sospettati di tradimento. Ma per gli albanesi la musica italiana era troppo importante – quelle parole d’amore erano l’unica educazione sentimentale che avevano ricevuto in un ambiente rigido come quello del regime – e non accennavano a smettere di cantare. Anzi, quella musica cominciò ad avere un significato controrivoluzionario.
Nel saggio si racconta di Adriano Celentano e di come diventò un’icona della libertà, della pesante censura che subì e delle strade ancora oggi a lui intitolate; racconta dei dirigenti televisivi arrestati dal regime per aver creato un festival della canzone albanese troppo simile a Sanremo, e perfino di come Libertà di Albano divenne l’inno non ufficiale dell’Albania liberata. Insomma, ciò in Italia era vissuto come puro intrattenimento, nel Paese delle Aquile era diventato simbolo di resistenza.
Saracino si addentra anche nelle contromisure prese da Hoxha, mettendo assieme testimonianze di scrittori, artisti e lavoratori della cultura. Il regime continuò a cercare, attraverso la televisione albanese, la Lega degli Scrittori – incaricata di creare e disciplinare la letteratura di partito – e i film di Kinostudio, di proporre un’alternativa valida all’arte occidentale. Molte di queste produzioni sono così interessanti da suscitare la domanda: quando l’arte prodotta sotto un regime è solo arte di regime, e quando è davvero arte?
Saracino, con l’aiuto della Fondazione Gramsci e della Regione Puglia, si sta occupando di salvare uno dei più grandi archivi cinematografici albanesi. Si tratta di ben 4500 pellicole con una fotografia incredibile (figlia di un italiano neutralizzato albanese, Pietro Marubi) e storie surreali. Tra queste, General Gramaphone, piccola gemma che narra la vita di un virtuoso clarinettista albanese la cui musica venne rubata dai fascisti italiani.
Noi, però, di tutto questo non abbiamo mai avuto idea. L’Albania ci guardava, ma non abbiamo mai restituito quello sguardo. È solo negli anni Novanta, quando cadde il comunismo albanese, che ci accorgemmo dei nostri vicini. Tutti ricordiamo le incredibili immagini della Vlora, la nave mercantile carica di 20mila albanesi che si lanciavano nelle acque del porto di Bari come se l’Italia fosse la terra promessa.
Da quel momento, iniziò una nuova era: quella dell’integrazione albanese in Italia. Fu il periodo dei ballerini di Amici, di Striscia la Berisha e di Toti e Tata, di Anna Oxa – giovane ragazza albanese che diventa una popstar italiana – e del lancio in televisione di Kledi Kadiu. Quest’ultimo varrà a Maria De Filippi persino un premio da parte del governo albanese per aver favorito l’integrazione: per gli italiani, vedere delle star albanesi nel varietà televisivo significava un passo verso l’accettazione.
Oggi – ci racconta l’autore – il sogno italiano è stato sostituito dal sogno americano. Non c’è più il poster di Anna Oxa nelle camerette delle ragazzine albanesi, ma Dua Lipa, popstar internazionale. I giovani schipetari non guardano più la Rai – un po’ come i nostri – ma Netflix e Amazon Prime, imparano l’inglese e sognano una vita a Londra o New York. Con l’Italia c’è stato amore prima e disincanto dopo, un’evoluzione più che naturale (anche date le delusioni dell’integrazione europea).
Tutto ciò, però, non toglie l’importanza del passato. Lo studio dei media, anche se spesso concepito come “storia di serie B”, in realtà rivela meccanismi complicati e nascosti. Da una domanda semplice come perché l’Albania ci vota sempre all’Eurovision? si può risalire a un’intera generazione di albanesi cresciuti con CentoVetrine o C’è posta per Te, ai loro genitori che usavano le parole di canzoni italiane per dichiararsi vero amore e ai loro nipoti emigrati in Italia a bordo di navi mercantili. C’è una storia comune nascosta tra luci e canzoni di cui non abbiamo alcuna coscienza: se volete scoprirla, questo libro fa per voi.