Ai tanti che sostengono che l’umanità non abbia alcun potere sull’andamento del cambiamento climatico, da oggi potete rispondere che il buco dell’ozono si sta chiudendo e lo sta facendo grazie a noi. Che poi si sia aperto sempre a causa nostra, forse, rende il merito un po’ meno meritato, ma per sostenere le responsabilità dell’azione umana è l’argomentazione perfetta. Vediamo perché.
Erano già alcuni anni che una possibile riduzione del buco dell’ozono si discuteva, ma finora non avevamo avuto dati reali. Secondo l’ultimo rapporto dell’ONU, le previsioni sono rassicuranti e la zona incriminata si sta lentamente riducendo. I problemi legati all’assottigliamento dello strato di ozono riguardano sia la salute umana sia la tutela ambientale. Il buco dell’ozono ha il compito di filtrare le radiazioni ultraviolette. In particolare, riesce a tenere lontani dalla Terra il 95% dei raggi UV-B e il 100% degli UV-C, i responsabili di melanomi e tumori alla pelle poiché influenzano le molecole di DNA e RNA degli organismi, causando danni irreversibili.
Ai danni sugli animali – umani e non – si aggiungono poi quelli all’ecosistema: i raggi solari non filtrati impediscono la fotosintesi clorofilliana e dunque riducono la crescita di alberi e piante, al momento i nostri migliori alleati contro il cambiamento climatico. Il mancato filtro solare è anche direttamente responsabile – sebbene non sia l’unica causa, coadiuvato dall’eccessivo utilizzo di gas serra – del riscaldamento globale. Il buco dell’ozono ha rappresentato, per anni, il motivo per cui la quantità di radiazioni solari che riescono a raggiungere la Terra è aumentato, alterando gli equilibri degli ecosistemi e della biosfera.
Fu il Protocollo di Montréal a mettere un freno a questo potenzialmente gravissimo disastro ambientale. Nel 1989 fu promosso dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite e, nel giro di qualche anno, ratificato da 197 Paesi. Stabiliva che la produzione e l’impiego di sostanze responsabili dei danni allo strato di ozono, i cosiddetti clorofluorocarburi, sarebbe gradualmente diminuito fino alla completa eliminazione. L’allargarsi del buco dell’ozono è però continuato a lungo dopo la firma degli accordi e i primi miti segnali di miglioramento sono arrivati solo agli inizi degli anni Duemila.
A oggi, è l’ultimo rapporto dell’ONU, Scientific Assessment of Ozone Depletion, a confermare di aver raggiunto l’eliminazione di quasi il 99% di tali sostanze. Secondo le previsioni, nel 2040 si dovrebbero raggiungere le condizioni del 1980. Alla totale chiusura, però, si potrà arrivare solo nel 2066, soprattutto per quanto riguarda la zona dell’Antartico in cui il ripristino dello strato dipende dalle condizioni climatiche, estremamente soggette al cambiamento climatico.
Insomma, in quelli che si sono rivelati gli otto anni più caldi mai registrati, nel periodo delle alluvioni, della siccità e dell’allarme per un futuro estremamente incerto, quella della riduzione del buco dell’ozono sembra la prima buona notizia ambientale. Ma è, in realtà, un richiamo vivido e concreto alle responsabilità umane, al potere delle azioni che i più egoisti tra gli abitanti della Terra possono mettere in pratica per ridurre i danni che loro stessi hanno creato. Non si può fare a meno di pensare, infatti, che se un’azione decisa e collettiva è riuscita a ridimensionare e, alla fine, eliminare quello che pochi decenni fa sembrava il più grave dei disastri che l’uomo ha causato all’ambiente, allora una stessa incisività potrebbe ridurre il cambiamento climatico e salvarci dal futuro arido e caotico che ci attende.
Le cooperazione tra Stati e i trattati internazionali funzionano. La volontà funziona. È questa la morale della storia, che qualcosa la possiamo fare contro i cambiamenti climatici, ma solo se lo vogliamo davvero. Il trattato di Montréal prevedeva un piano di smaltimento o eliminazione di ognuna delle sostanze incriminate ben preciso, e cadenzato da scadenze temporali. Una diminuzione graduale ma ben stabilita dell’impiego dei clorofluorocarburi, con percentuali di diminuzione stabilite su base temporale. Il buco dell’ozono l’abbiamo sconfitto perché volevamo effettivamente farlo. Con il riscaldamento globale, invece, non stiamo facendo lo stesso.
Gli accordi di Parigi hanno stabilito un obiettivo comune, ma da allora non sono stati stabiliti parametri concreti con cui perseguirlo. Non ci sono percentuali di produzione di CO2 entro le quali rientrare, non ci sono piani di produzioni alternativi. A ogni riunione, a ogni Summit, non si fa altro che rinnovare l’impegno di tenere la temperatura media globale al di sotto degli 1,5 gradi in più rispetto ai livelli preindustriali, ma non si parla mai di come farlo. Si parla di riduzioni vaghe e di investimenti non ben definiti, perché per ridurre le emissioni, per eliminare il ricorso a fonti fossili, per piantare più alberi, si perdono risorse, si perdono soldi e non conviene a nessuno. Certamente non conviene a coloro che ci governano oggi, perché non saranno loro a subire le conseguenze del riscaldamento globale. Saranno i loro figli e i loro nipoti, le generazioni dal futuro inesistente che vivranno in un mondo potenzialmente incompatibile con la vita.
La definizione di sviluppo sostenibile coniata nel 1987 sostiene che il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente, quella che prende le decisioni oggi, non debba compromettere le possibilità, il benessere, la sopravvivenza delle generazioni future. Questa definizione, che risale a decenni fa, è quanto mai attuale e dovrebbe permeare l’azione politica individuale e collettiva di ognuno di noi. Dovrebbe ispirare le scelte dei governi, che sembrano sempre interessati a soddisfare i bisogni dei propri elettori senza considerare le conseguenze per i cittadini del futuro – e non si parla solo di clima, ma di previdenza, di sanità e di moltissimi altri temi – e anche le azioni individuali, dei cittadini che scelgono, con le proprie decisioni inquinanti, il proprio agio oggi, compromettendo il benessere di chi verrà dopo.
Se la riduzione del buco dell’ozono poteva sembrare una speranza per il futuro, si rivela in realtà più un avvertimento sui danni che l’inazione può causare. E con questi presupposti, non c’è speranza.