Anno nuovo, vita nuova per il Brasile. Il primo gennaio, il Presidente eletto Luiz Inácio Lula da Silva – per tutti Lula – ha giurato presso il congresso di Brasilia: sono passati undici anni dal suo ultimo incarico, ma ora il leader del Partito dei Lavoratori è tornato alla guida del Paese. In un precedente articolo avevamo raccontato come i due candidati alla presidenza (Lula e Jair Bolsonaro, che si trovava alla fine del suo mandato) incarnassero due visioni nettamente opposte del mondo, e come le elezioni si fossero trasformate in una disputa tra democrazia e autoritarismo.
La polarizzazione e la violenza, fedeli compagne di questa tornata elettorale, non sono sparite neanche di fronte al giuramento di Lula. I sostenitori dell’ex Presidente Bolsonaro non riescono ad accettarne l’insediamento: uno di loro, durante la sfilata trionfante di Lula, ha tentato di avvicinarsi alla Rolls Royce scoperta presidenziale armato di un coltello e di esplosivo. Non sorprendono questi exploit violenti tra le fila dei bolsonaristi, che hanno usato rudimentali ordigni, pistole e coltelli per tutta la durata del periodo antecedente alle urne.
Dopotutto, è stato il loro leader ad aizzarli. Durante la campagna elettorale, Bolsonaro urlava che sarebbe andato in guerra per difendere il Paese da Lula, a costo di essere arrestato, essere ucciso o vincere. Pare, invece, che ci fosse una quarta opzione: volare negli Stati Uniti a bordo di un aereo dell’aeronautica militare. L’ex Presidente infatti si è dileguato, rifiutandosi di consegnare la fascia al suo successore. Un gesto senza precedenti in Brasile che comunica odio e disprezzo, ma anche una rottura netta tra passato e presente.
Nulla sarà più lo stesso, in Brasile. Non ci sarà una lenta e graduale trasformazione né un tentativo di riconciliazione con le politiche antecedenti. Lo dimostrano le prime mosse di Lula, incentrate sul caldissimo tema dell’Amazzonia. Il Presidente eletto ha infatti annunciato la creazione del nuovo Ministero per le Popolazioni Indigene guidato da Sônia Guajajara, elemento chiave del movimento per i diritti degli indigeni brasiliani.
Il Brasile ha la sua prima Ministra indigena. Sônia Guajajara oggi ha quarantotto anni e più di venti di attivismo sociale e politico alle spalle. Nel 2018 fu la prima donna indigena a candidarsi alla vicepresidenza del Paese ed è stata nominata tra le 100 persone più influenti del 2022 secondo Time. La celebre rivista statunitense descrive la nuova Ministra come una persona che resiste: contro il maschilismo, da donna e da femminista; contro il massacro dei popoli indigeni, come attivista; e contro il neoliberismo, come socialista.
Chiave è anche la figura della nuova Ministra per l’Ambiente, Marina Silva. Anche lei con origini amazzoniche, la titolare del dicastero ricoprì lo stesso incarico tra il 2003 e il 2008 (proprio durante la precedente presidenza di Lula), quando riuscì a ridurre la deforestazione dell’Amazzonia del 59%, un risultato che lascia ben sperare. In seguito, si scontrò fortemente con Lula sulla ricerca petrolifera, tema sul quale il Presidente accusò Silva di essere eccessivamente intransigente. Nel periodo in cui Lula è stato incarcerato però, i due si sono riavvicinati e il riconciliamento finale è avvenuto proprio grazie a questa nomina. Il messaggio del Presidente è chiaro: per l’Amazzonia le politiche rigide e intransigenti sono più che necessarie.
Le due donne – Guajajara e Silva – hanno infatti una responsabilità enorme sulle spalle. L’eredità lasciata da Bolsonaro è drammatica: solo tra il 2020 e il 2021, ben 13mila chilometri quadrati della foresta sono stati distrutti e i tassi di deforestazione non sono mai stati così alti. La paura della “cacciata di Bolsonaro” ha messo le ali ai piedi a grileiros (accaparratori di terre), garimpeiros (cercatori d’oro) e madeireiros (taglialegna illegali), che hanno provato ad accaparrarsi più fette di foresta possibili in breve tempo attraverso omicidi e incendi.
L’ex Presidente non solo non ha provato ad arginare queste operazioni illegali, ma le ha persino incoraggiate. Non a caso la deforestazione è cresciuta del 48% nel suo mandato: Bolsonaro vedeva nel polmone verde del pianeta un’enorme fonte di reddito ed era determinato a sfruttarla fino all’osso. C’era, però, un piccolo impedimento: le popolazioni indigene che abitavano quelle terre e che le difendevano a ogni costo. Mentre il 70% della deforestazione protratta tra il 1985 e il 2020 è avvenuta su zone private, meno del 2% si è verificato nelle terre indigene.
Le strategie di Bolsonaro a riguardo sono state due. La prima, quella che aveva una parvenza di legalità (seppur del tutto incostituzionale) è stata il decreto legge 490, che con un tranello burocratico mirava a espropriare le terre delle popolazioni native per svenderle a latifondisti e coltivatori di soia. La seconda è stata operata di nascosto, ma con il beneplacito delle forze militari: più di 300 persone sono state uccise nelle lotte per difendere e salvare i terreni in Amazzonia dal disboscamento illegale.
La neo eletta Sônia Guajajara ha visto cadere amici e compagni di lotta, tra cui Janildo Guajajara, uno dei Guardiani dell’Amazzonia che pattugliavano la foresta per allontanare i madeireiros, assassinato a un mese dalle elezioni. La Ministra ha dichiarato che la sua terra, la Araribóia, ha perso il 60% della vegetazione e che per tutta la sua adolescenza la donna non ha visto che un andirivieni di camion pieni di legno di cedro, noce, sequoia e ciliegio.
La Guajajara ha dichiarato però che se c’è qualcosa che la sua adolescenza le ha insegnato è che la mera repressione non risolverà le cose. I taglialegna che hanno distrutto la Araribóia erano persone comuni che cercavano solo di dare da mangiare alle loro famiglie. Per arginare il fenomeno serviranno politiche sociali per aiutare i minatori e i taglialegna in difficoltà, assieme ad arresti e punizioni severe per i loro mandanti.
Allo stesso tempo, la Guajajara si è posta l’obiettivo di garantire l’accesso all’istruzione e alla salute alle popolazioni indigene, oltre alla difesa del loro territorio e alla lotta contro le violenze. Le tribù native sono infatti allo sbaraglio, indebolite dalla perdita delle loro terre e del loro stile di vita, e decimate dalla pandemia globale. Lasciati senza vaccini, senza istruzione e ormai anche senza le loro case, i nativi del Brasile hanno bisogno di politiche sociali incisive per sopravvivere. Un ministero apposito era più che necessario.
Silva, dal canto suo, a poche ore dall’insediamento, ha già varato una raffica di decreti che aboliscono tutte le manovre del governo Bolsonaro che aprivano la foresta all’invasione dei latifondisti. Silva va di fretta: il Think Tank Climate Focus ha pubblicato un rapporto secondo il quale la deforestazione sta andando avanti a un ritmo tale da impedire al pianeta di prevenire i cambiamenti climatici. La foresta amazzonica produce il 20% del nostro ossigeno e gli alberi sarebbero normalmente in grado di abbassare i livelli di CO2 presenti nell’atmosfera, ma le perdite subite potrebbero mettere questo equilibrio a rischio.
Il destino del pianeta e quello dei nativi è legato a un filo rosso. Lo sfruttamento selvaggio delle aree protette ha infatti due conseguenze: il genocidio delle popolazioni indigene e la certezza di causare migliaia di morti per eccesso di calore in tutto il pianeta. Solo un lavoro coordinato da parte di Silva e Guajajara potrebbe tamponare le perdite subite e salvare (per un pelo) il futuro di milioni di persone. È un po’ come in quei film con i supereroi, in cui il destino del pianeta si gioca in una manciata di secondi dal finale.
Ma i cattivi della realtà sono più subdoli di quelli dei film, non si perdono in lunghi discorsi sulle loro ragioni né in distrazioni da manuale. Soprattutto, sono già ovunque: è più facile arginare un’invasione aliena che combattere un nemico invisibile che ormai prolifera dappertutto. Guajajara e Silva hanno bisogno del supporto più totale e incondizionato da parte di Lula, di risorse e finanziamenti, perché la battaglia è appena cominciata.