Abbiamo paura. Siamo sempre sull’attenti, pronti a una nuova catastrofe. Viviamo la nostra vita cercando di non pensarci, ma in fondo certi che qualcosa di brutto accadrà. Ascoltiamo le notizie con un’angoscia nascosta, pronti a sentire quelle più terribili che ci aspettiamo da un momento all’altro. E viviamo una malinconia sociale mai sperimentata prima. È questo il succo dell’ultimo rapporto Censis sulla condizione mentale ed emotiva degli italiani del terzo millennio, vittime di ben più di una crisi che nel corso degli ultimi tre anni ha inevitabilmente influenzato le nostre vite e il modo in cui le viviamo.
Si chiama L’Italia post-populista e malinconica ed è il cinquantaseiesimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, alle prese con un crollo della serenità nella vita di gran parte dei cittadini. Non è una novità, infatti, che i grandi eventi della storia abbiano una conseguenza anche nelle microstorie, ovvero delle vite di ogni individuo. È però certamente straordinaria la situazione degli ultimi anni, che ha visto il susseguirsi di molte crisi diverse che hanno inevitabilmente influenzato la serenità di tutti i cittadini.
La ricerca individua quattro crisi sovrapposte: alle già preoccupanti vulnerabilità economiche di lungo periodo e alle debolezze strutturali di una società che è ancora molto lontana dall’essere equa e paritaria, si sono aggiunte nel brevissimo lasso di tempo degli ultimi tre anni anche la pandemia, la guerra, l’inflazione e la crisi energetica.
In particolare, la pandemia non ha incontrato il salvifico momento di svolta in cui si sperava all’inizio, lo scoppio di una guerra all’interno dei confini dell’Europa ha fatto cedere le certezze riguardo la sicurezza di questo lato del mondo e le conseguenze economiche degli avvenimenti globali hanno modificato sensibilmente le condizioni di vita di molti cittadini. In seguito a questi eventi, la situazione descritta dai dati raccolti dipinge una popolazione che non riesce a liberarsi della malinconia sociale e vive nell’incertezza costante. Il 61% degli italiani teme lo scoppio del terzo conflitto globale e il 59% l’avvento della bomba atomica. Il 58% teme una realistica possibilità che l’Italia entri in guerra.
Quella che stiamo vivendo è una nuova età dei rischi. Un periodo in cui il benessere inizia a venir meno e, anche dove persiste, si percepisce il pericolo di una diminuzione o di una perdita imminente del proprio stile di vita. Se da un lato è vero che il corso della storia ha visto il susseguirsi di numerose crisi, è anche vero che quelle che viviamo oggi si differenziano dalle precedenti per la mancanza di un fattore decisivo: il sistema di credenze. In assenza di una teologia rassicurante e anche di fronte al fallimento delle promesse di prosperità della modernità, i rischi non possono più essere affrontati con serenità e le crisi con proiezione verso il futuro.
Si registra una grande differenza rispetto all’epoca pre-Covid nei confronti dell’insicurezza che gli individui percepiscono all’interno delle proprie vite. Si è infatti consolidata l’idea che non si è al sicuro da nulla, perché tutto può accadere: lo ha dimostrato la pandemia, con i conseguenti periodi di isolamento e dunque l’impossibilità di accedere a elementi considerati essenziali nella vita quotidiana, dall’approvvigionamento di beni e servizi all’interazione con il prossimo, fino a, ovviamente, le conseguenze economiche, disastrose per molte categorie di lavoratori e per tante famiglie. Gli stessi timori si stanno ora riversando su qualunque evento della storia, che finisce per influenzare la vita dei cittadini. L’84,5% degli italiani, infatti, è convinto che gli eventi esterni possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria quotidianità.
La percezione dei rischi si è amplificata fino a causare sentimenti di impotenza nei confronti del proprio destino. Il 66,5% degli italiani si sente insicuro. I numeri risalenti al 2019 e, dunque, a prima della pandemia e dello scoppio di questa nuova era di crisi, registravano per questo dato ben dieci punti percentuali in meno. I principali rischi percepiti sono la guerra, che più di ogni altra cosa plasma di paura l’immaginario collettivo, la crisi economica, i virus letali e in generale i rischi biologici, l’instabilità dei mercati e gli eventi atmosferici catastrofici. Gran parte di queste minacce sono in effetti più imminenti di quanto non siano mai state e la percezione del rischio all’interno della popolazione sta inevitabilmente crescendo.
Non è tanto, però, il realismo o l’imminenza di tali minacce che si vuole misurare, ma le conseguenze che tali percezioni hanno sulla vita quotidiana e sulle microstorie di ogni individuo. Non si ha infatti a che fare, come parrebbe normale pensare, con una società allo sbaraglio, caotica, in preda a terrori incontrollati. Si sta invece assistendo a un cambiamento delle priorità delle persone, che tendono a ritornare alla necessità di soddisfare i bisogni individuali e primari invece di quelli sociali.
Nel rapporto Censis si parla molto di ridimensionamento dei sacrifici: è tipico, nella società dei consumi, assistere a un continuo sacrificio degli individui che tende alla capitalistica necessità di arricchirsi e modernizzarsi. Queste necessità che, fino a poco fa, orientavano le scelte individuali e collettive non sembrano più fare effetto. Se ne parla, per esempio, all’interno del mondo del lavoro, che tra big quit – le dimissioni di massa di molti dipendenti alla ricerca di lavori e stili di vita meno stressanti – e burnout hanno portato a un sempre più invasivo cambiamento all’interno della vita lavorativa.
Per esempio, il 36,4% degli italiani non è più propenso a fare sacrifici per la vita professionale, che si tratti di fare carriera o di accedere a stipendi più elevati. L’80% afferma di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare e imporsi uno stile di vita diverso da quello che genera serenità. Ma, soprattutto, non si percepisce più il bisogno di fare sforzi o sacrifici nel presente in vista di un potenziale benessere futuro, proprio a causa dell’incertezza che il futuro comporta.
La passività è la conseguenza di un domani imprevedibile, confermato dalle recentissime crisi. Quasi il 90% degli italiani dichiara di provare sentimenti negativi, tristi e malinconici pensando alla tragica sequenza di pandemia, guerra e crisi ambientale. Si tratta di una malinconia sociale dovuta alla ritrovata consapevolezza dell’impotenza dell’individuo sul proprio destino. Se prima, infatti, prevaleva l’idea di onnipotenza dell’io e un certo principio imprescindibile di autodeterminazione personale, oggi si ha la percezione dell’impotenza nella realizzazione personale, perché tutti inevitabilmente vittime degli eventi esterni.
Più di ogni altra cosa, dunque, è l’incontrollabilità dei rischi a causare il crollo. Si tratta, dopotutto, della tragica estremizzazione di ciò che stavamo già vivendo, anche senza pandemia o guerra. La sociologia ha sempre registrato, all’interno della storia recente, un susseguirsi di crolli delle certezze prima inequivocabili, di vari sistemi di valori e credenze che davano un punto di riferimento alla società. Qualcosa in cui credere.
La fiducia nella religione, nella politica, nelle istituzioni in generale generava un senso di rassicurazione che oggi è completamente assente. Se già questi presupposti bastano per cambiare radicalmente la percezione sociale, il susseguirsi di crisi che abbiamo vissuto ne ha estremizzato le conseguenze. Basti pensare a una recente ricerca che ha registrato un precoce invecchiamento del cervello a causa dello stress dovuto all’incertezza degli ultimi tre anni. Si tratta, dunque, di conseguenze tangibili sulla vita, sulla salute, sulle interazioni sociali delle persone.
È dalla storia dei tempi che l’umanità si è sentita piccola di fronte a grandi eventi incontrollabili, ed è da sempre che ha lavorato per acquistare più potere, più voce in capitolo, nella realizzazione dei propri destini. La differenza sta nella rassegnazione generale percepita, nella convinzione che non ci siano azioni o strumenti o tecnologie in grado di cambiare le cose. Complice forse soprattutto la percezione di imminenza della crisi climatica che non lascia molto spazio all’immaginazione di un futuro, oggi si vive solo di malinconia sociale. E, proprio come la percezione registrata, le prospettive per il futuro non sembrano migliori.