Se c’è una cosa che il nuovo governo capeggiato da Giorgia Meloni non ha mancato di fare è dimostrare chiaramente da che parte sta: dalla parte degli imprenditori, degli evasori, dei ricchi. E così quanto promesso e minacciato in campagna elettorale sta diventando realtà, con migliaia di famiglie che rischiano di ritrovarsi senza alcuna possibilità di sostentamento. Le modifiche apportate al reddito di cittadinanza sono contenute nella Legge di Bilancio varata pochi giorni fa dal Consiglio dei Ministri e che dovrà essere approvata nella sua versione definitiva dal Parlamento. Tuttavia, le intenzioni sono state rese note fin da subito con un comunicato, seguito poi da una conferenza stampa, in cui si è detto chiaramente che lo Stato non può occuparsi di alcuni soggetti a tempo indeterminato.
Il discrimine è nella parola occupabilità: chi, in base alla legge, sarà considerato occupabile riceverà il sussidio per un tempo limitato nel 2023 – otto mesi, a differenza degli attuali diciotto rinnovabili – per poi perderlo del tutto nel 2024 o anche prima, se ci fosse un unico rifiuto – e non più due – a un’offerta di lavoro astrattamente congrua o non si frequentassero i corsi di formazione obbligatori previsti. Si tratta di coloro che hanno tra i 18 e i 59 anni, non sono invalidi – e dunque oggettivamente in grado di lavorare – o donne in gravidanza, e non hanno nel proprio nucleo familiare minori, disabili o persone a carico con oltre 60 anni.
Ma che significa essere davvero occupabile nel nostro Paese? Avere un’età in cui potenzialmente si è in grado di lavorare significa davvero essere nelle condizioni materiali e pratiche di trovare un lavoro che sia perlomeno dignitoso?
Nel 2019 – per opera di un governo gialloverde in cui era presente anche Matteo Salvini che adesso rinnega a gran voce la misura – il reddito di cittadinanza nasceva sì come strumento di sostegno al reddito per chi versasse in condizioni di povertà, ma anche come misura di politica attiva del lavoro. Questo secondo aspetto, tuttavia, è quello che ha manifestato, fin dal primo momento, evidenti lacune e criticità. Ciò è dovuto alla superficialità con cui il sistema di collocamento è stato riavviato in occasione della misura, senza avere le risorse necessarie e con una frammentarietà che ha comportato il completo fallimento nella gestione dei centri per l’impiego e dell’ANPAL.
Si tratta dello stesso motivo per cui al momento è addirittura impossibile conoscere il numero preciso di coloro i quali saranno esclusi dalla misura del reddito di cittadinanza fino a quando non sarà resa nota la relazione tecnica allegata al disegno di legge: secondo le notizie provenienti da INPS i soggetti effettivamente occupabili sarebbero circa 372mila; secondo ANPAL, invece, quasi il doppio. Bisogna infatti considerare coloro che sono – o sarebbero – destinatari del cosiddetto Patto per il lavoro (e non del più ampio Patto per l’inclusione sociale), ma tenere fuori quanti versano in una delle situazioni che salvano dall’esclusione.
Per avere un’idea dell’inefficacia del reddito di cittadinanza come misura di inserimento nel mondo dell’impiego, basti pensare che, stando agli ultimi dati a disposizione che risalgono a settembre 2021, nei due anni dall’introduzione della misura quasi 2 milioni di percettori del sussidio hanno imboccato la strada delle politiche attive del lavoro. Tra questi il 20% aveva già un’occupazione, mentre il 30% l’ha trovata dopo aver ricevuto il sussidio, anche se non sempre come frutto della presa in carico conseguente al suo riconoscimento. In ogni modo, si è trattato nella maggior parte dei casi, di lavori la cui durata non ha superato i tre mesi e di cui il solo 0.8% è durato più di un anno. Questo è dovuto al fatto che si tratta spesso di persone con un basso livello di scolarizzazione, che non hanno esperienze pregresse e che si trovano ai margini della società. Per intenderci, persone che non sono appetibili per i datori di lavoro. Perché non basta essere teoricamente occupabile per diventare occupato.
La difficoltà nell’avere un quadro completo della situazione futura per milioni di famiglie non deriva solo dalla mancanza di dati aggiornati e dall’assenza di interoperabilità e comunicazione tra i sistemi dei vari soggetti attuatori della misura, ma anche dalla superficialità adottata nell’introduzione di tali modifiche alla misura – senza una ridefinizione precisa – che al momento non sono altro che parole vaghe. Si è parlato infatti dei soliti incentivi alle imprese che assumeranno i percettori, oltre che di impiegarli nei lavori socialmente utili.
Pur nella loro vaghezza, queste parole assumono tuttavia un significato ben preciso, perché il governo ha deciso di ignorare dei dati fondamentali, anche diffusi dall’ISTAT, che riguardano l’efficacia e l’importanza assunta dal reddito di cittadinanza per evitare a circa un milione di famiglie di finire sotto la soglia della povertà assoluta. Si sceglie quindi di non considerare uno dei principali scopi per cui il rdc era nato, ossia rappresentare uno strumento di sostegno al reddito per chi versa in condizioni di povertà, come del resto avviene in quasi tutti i Paesi che amano definirsi civili.
Certo, nell’immaginario di Luigi Di Maio, avrebbe addirittura sconfitto la povertà, ma molto più umilmente ha rappresentato e rappresenta, seppur con numerosi limiti, un mezzo necessario, che ha permesso anche di disincentivare l’accettazione di offerte di lavoro le cui condizioni sono ben al di sotto dei limiti legislativi e umani.
E così anziché partire da qui, dalla difficoltà di inserirsi nel mondo del lavoro dignitosamente, e dall’inefficacia degli strumenti attualmente previsti per un reale accompagnamento all’occupazione, si decide di tagliare il sussidio, producendo tra gli altri un ribasso ulteriore dei salari dei lavoratori poco qualificati. Le modifiche definitive non sono chiare e potrebbe trattarsi anche di una semplice abolizione formale (per poi vantarsi di aver mantenuto le proprie promesse), ma il messaggio è chiaro: poco ci importa dei poveri, i padroni siamo noi.