Come le altre cose della vita, anche le discriminazioni sono tutte intrecciate. Così, gli svantaggi e le ingiustizie, anche apparentemente molto diversi tra loro, hanno tanto a che fare gli uni con le altre. È per questo, d’altronde, che il femminismo si dice intersezionale, perché riconosce anche in altre tipologie di discriminazione – quella razziale, per esempio, quella nei confronti della comunità LGBTQ+, e quella di classe – lo stesso meccanismo, lo stesso sistema escludente, che collega ogni ingiustizia all’altra. Questa premessa spiega perché oggi, 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, parliamo di violenza economica.
La violenza perpetrata nei confronti delle donne, quella commessa non per motivi qualunque che potrebbero riguardare allo stesso modo anche un uomo, ma quella riguardante le donne proprio in quanto tali, è frutto – ormai lo sappiamo – della stessa matrice su cui si fonda l’intera società: quella di un potere che si basa esclusivamente sulla prevaricazione. È quella che distingue i femminicidi dagli altri delitti, è quella che distingue la violenza domestica dalle normali percosse ed è quella che distingue la violenza sessuale da qualunque altro tipo di abuso.
Queste forme di violenza sono le più comuni e le più condannate nei giorni come il 25 novembre, fenomeni di cui però non sempre si analizzano bene le radici, che sono spesso, inevitabilmente, intricate nelle relazioni familiari. Come spiegavo l’ultimo 8 marzo, in occasione della giornata che celebra i diritti delle donne, i timori che in un modo o nell’altro tutte si trovano ad affrontare, quella dell’uomo cattivo che ci inganna, ci rincorre nelle strade buie e ci violenta, è l’immagine più spaventosa, la più comune, eppure la meno probabile. È difficile rendersi conto che, invece, le probabilità di avercelo in casa, l’uomo cattivo, sono molto più alte.
Delle circa 6 milioni e 788mila donne italiane (il 31.5% della popolazione femminile tra i 16 e i 70 anni) che hanno subito una forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, 2 milioni e 800mila sono state vittime di un partner o di un ex partner. I dati raccolti dai periodici report dell’Istat confermano che le forme più gravi di violenza, in particolare stupri e percosse, sono esercitate principalmente da partner, parenti o amici. Uno studio condotto da Ansa a partire dai dati pubblicati dal Servizio analisi criminale ha dedotto che l’89% dei casi di femminicidio è perpetrato da parte di partner, ex partner o parente. Analisi che conosciamo bene e che ritrovano la terribile spiegazione nel possesso, nel bisogno di controllare la propria donna, la propria figlia, la propria sorella. Che ha a che fare con il potere che il maschio che possiede una donna deve esercitare per dimostrarsi virile, macho, uomo vero.
Ciò che però spesso sfugge è che, mentre situazioni di questo tipo possono presentarsi potenzialmente ovunque, in famiglie italiane e straniere, in famiglie di religioni diverse, di classi e livello d’istruzione differente, è nelle classi più svantaggiate, nelle situazioni economiche con minore indipendenza, che le violenze non possono fermarsi, perché le vittime non hanno alternative, non hanno le opportunità economiche per uscirne. Se vi sembra un caso un po’ troppo specifico, se credete che i conti in comune e le donne senza stipendio o indipendenza economica siano poche rispetto al totale, vi basti sapere che in Italia il 37% delle donne non possiede un proprio conto corrente.
Sta male parlare di soldi, soprattutto se si è donna. Non è elegante. Sta male parlare dei soldi che si guadagnano, o confrontarli con quelli del proprio partner. E non sia mai guadagnare di più, per carità, dovesse venirgli un attacco di virilità mancata. Questo alone di mistero che aleggia intorno al denaro, come se non fosse la cosa intorno alla quale gira il mondo, è la stessa che spesso impedisce alle donne di conoscere la condizione economica della propria famiglia e di disporre delle proprie finanze, a partire sin dalle dinamiche della famiglia di origine.
La violenza economica riguarda il controllo su tutto il denaro, a partire dalla gestione dei conti correnti. Si coniuga spesso a una qualche forma di manipolazione psicologica, perché subordina inevitabilmente le scelte di vita della donna a chi ne gestisce le finanze. La situazione che ne risulta è quella di una dipendenza che impedisce alla donna di lasciare un partner con cui non vuole più stare o, nei casi più estremi, un partner violento. È una forma di violenza quotidiana, che si insinua un po’ alla volta nella vita di una donna e che parte proprio dall’impossibilità di raggiungere l’indipendenza economica. Non è solo la mancanza di conti correnti il problema chiaramente, e ha molto a che fare con gender pay gap, difficoltà a trovare lavoro dopo la nascita dei figli, part-time involontari e tutte quelle forme di subordinazione che la società impone a livello economico e non solo alle donne. Ma questo dato sui conti correnti sembra emblematico di una mancanza di indipendenza che, in qualche modo, finisce per colludere con le altre forme di violenza.
Le forti ma sfortunatissime donne di Mille splendidi soli – il meno famoso dei libri dell’autore afghano Khaled Hosseini – rubano piccolissime quantità di denaro al tiranno marito per anni, le cuciono all’interno delle fodere di oggetti che l’uomo non toccherebbe, per mettere da parte i soldi necessari per comprare un biglietto e fuggire. Per le donne della vita vera, forse non è così semplice e non basta un autobus per scappare, perché servono i soldi per sopravvivere, per avere un tetto sulla testa, per sfamare i figli che non possono essere abbandonati con i padri violenti. E, dunque, non è questa la soluzione alla violenza economica.
Eppure, ricordo qualcosa del genere anche nei racconti di mia nonna. Non so se fosse sua madre o sua suocera, ma ricordo il racconto di una bisnonna che conservava la propria fortuna sottraendo piccole quantità dai soldi che le venivano dati dal marito, chiaramente unico percettore di reddito, per fare la spesa. Non li conservava per scappare, ma per qualche piccolo sfizio o per viziare i nipoti con paghette extra. Non erano soldi per fuggire dalla violenza, ma soldi per guadagnarsi una libertà che la subordinazione economica non permetteva. Perché non servono necessariamente percosse e abusi, non serve necessariamente voler scappare, per stare troppo stretti in una condizione di dipendenza economica.
Allora, in un mondo che senza il denaro smetterebbe di ruotare, i soldi non possono che avere un ruolo centrale anche nelle dinamiche che generano la violenza di genere. E i soldi e la loro gestione, insieme a disparità salariali e discriminazioni sul lavoro, non possono che entrare nel dibattito per la parità di genere. Servono soldi, d’altronde, per un’equa distribuzione del carico di cura, per permettere alle madri di lavorare, per diffondere i principi della parità in una cultura sostanzialmente patriarcale, per i congedi di paternità e per gli asili nido. Servono i soldi per sottrarsi alle violenze sistemiche fintanto che la società non si adopera per modificarsi, evolvere e migliorare. E se le donne non posseggono neanche un proprio conto corrente, mi chiedo chi è che avrà voglia di impiegare le proprie risorse per cambiare la società intera.