I calcoli dei movimenti stellari sono turbati da quella che gli scienziati chiamano l’“equazione personale”, per cui sono necessari controlli e verifiche. Vedere esattamente come si identifica questa causa di errore, con quali criteri e come viene apportata la modifica. In ogni caso la nozione di “equazione personale” può essere impiegata utilmente anche in altri campi oltre che nell’astronomia.
I Quaderni si presentano proprio così: come un’equazione personale che Gramsci ci lascia. Appunti, “notarelle”, nei quali ognuno di noi può perdersi liberamente. Può continuare a scriverli, riscriverli, modificarli al presente: è materiale magmatico che scantona nelle mille strade del possibile. Così lo storico può leggerli da storico, il critico letterario da critico, il lettore da lettore. Ognuno di noi può, in qualche modo, non far morire Gramsci. E, tutto sommato, è la ragione profondissima per cui li ha scritti: non un anelito all’immortalità tipico di un autore, ma l’esatto contrario e cioè impedire a se stesso di morire.
Così, quando mi trovo davanti ai dubbi amletici della modernità – è giusto o sbagliato usare il navigatore? – cerco, con assoluta e militante mancanza di intellettualità, di domandare a Gramsci e tralasciare il mio endemico complottismo che mi fa supporre che il navigatore trascini il navigato davanti a più esercizi commerciali possibili per scatenare bisogni di acquisto che, casomai, non ha. Lo stesso Gramsci mi risponde che è molto meglio perdersi nella città che affidarsi acriticamente a una macchina che ti conduce dove vuole: una nuova forma di burocrazia ottusa, che non crea sapere ma meccanicismi, una subordinazione alla macchina. È una mia opinione, naturalmente, così come lo sono state tutte le rubriche sui Quaderni che i miei amici di Mar dei Sargassi mi hanno coraggiosamente pubblicato.
I parrucconi dalle citazioni colte tendono a imbalsamare l’altezza di Gramsci in formule politiche da salotto. Ma Gramsci, attraverso i Quaderni, cercava oltre alla sua Resistenza personale, anche di fornire spunti di Resistenza per ciascuno di noi, proprio per scappare dai salotti, dalle consorterie di qualunque colore che egli individuava come vero freno allo sviluppo sociale italiano. Il conformismo gesuitico, delle bocche a cuoricino, delle caste di piccoli intellettuali, che recitano il copione che le massonerie scrivono per loro.
Scappa una lacrima a cogliere il moto dei suoi nervi che scivolano via. La scrittura che si fa rarefatta e si perde in qualche ripetizione o in qualche ossessione. È la lenta agonia alla quale il regime fascista lo ha sottoposto. Un calvario suo, vero, ma che deve farci aprire gli occhi davanti a un pericolo imminente per ciascuno di noi: quello di perdere l’elemento umano nelle nostre relazioni che siano economiche, politiche o personali. L’isolamento del carcere, ma anche gli isolamenti estremi di questa società livida e spenta.
Il regime si manifesta in mille modi, ma con un unico scopo: quello di devastare la dignità dei diversi, dei marginali, degli antagonisti e creare un conformismo opaco che annienta ogni equazione personale. Resistere, secondo Gramsci, non è altro che “fare libertà”, attraverso una coscienza critica formata, informata, consapevole, unita. In tutti i Quaderni torna come un’ossessione la centralità della scuola, del giornalismo, dell’accesso al sapere per gli ultimi. Persino una grammatica condivisa e funzionale torna e ritorna come strumento imprescindibile del sapere e della comunicazione del medesimo: “una nuova grammatica”, fluida e capace di verticalizzare la conoscenza personale e orizzontalizzare quella collettiva. Proprio per sottolineare che senza quel “cuore, occhi e cervello” non è possibile, per nessuno di noi, leggere la realtà né tantomeno interpretarla per modificarla.
Un personaggio scomodo, anche tra gli stessi comunisti dell’epoca, perché troppo libero, forse troppo in avanti, forse troppo universale. Ed è proprio per questo motivo che è spaventosamente attuale. Le derive di questa società, di questo capitalismo cannibale, riducono l’uomo a pezzi di ricambio. Rottami e fantasmi abbandonati a uno isolamento che, se si è fortunati, diventa condanna a morte, altrimenti è un ergastolo di silenzio senza fine.
L’isolamento, anche quello di una cella, indebolisce il corpo, la mente e ti fa perdere ogni diritto alla tenerezza senza il quale l’uomo si degrada a bestia. Gramsci ha resistito a questa trasformazione attraverso i Quaderni, come uno zibaldone infinito, scritto per noi, per cercare un filo con noi, dove riuscire a perdersi, ma senza perdersi mai del tutto. Da qui il mio odio per il navigatore: dobbiamo imparare nuovamente a perderci, senza sentirci sconfitti, perché è esattamente quello che vogliono i fascismi della modernità. Trasformarci in arresi, in istinto di sopravvivenza e poco altro. Macchine metaboliche che imparano solo a fare la pipì a comando.
Tutto sommato la libertà del detenuto n. 7047 dura un battito di ali, dal 21 al 27 aprile del 1937, il tempo esatto però per non morire da criminale, i nervi cedono di colpo, logorati forse dai suoi stessi sogni, eppure non è sconfitto, non si è piegato al regime fascista che pretendeva la richiesta di grazia e quindi di resa per poterlo liberare, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, nonostante le continue crisi che lo paralizzavano settimane dentro al letto. Ha resistito e, in qualche modo, ci indica la strada per resistere alle strettoie di ogni vita, che siano quelle del proprio doloroso esistere o quelle dell’osservare il Paese scivolare verso un nulla che ha l’odore del sangue.
Le ceneri di Gramsci, chiuse in un’urna, sono state inumate al Verano nei loculi del Comune. Saranno trasferite dopo la Liberazione nel cimitero acattolico degli Inglesi, a Roma. Dove tuttora si trovano.
Contributo a cura di Luca Musella