Quello della sostenibilità è un concetto molto più ampio di quanto pensiamo. Si associa quasi sempre alla sola questione ambientale, alla salvaguardia del pianeta, della sua salute, dei suoi ecosistemi, ma non si ferma davvero a questo. Se guardiamo alla sua definizione – qualcosa che può essere mantenuto con costanza o difeso con argomenti probanti – è facile renderci conto che invece ha tanto a che fare anche con altro. Nell’Agenda 2030 stilata dall’ONU, infatti, si parla di sostenibilità ambientale, economica e sociale, tre aspetti che sono inevitabilmente intrecciati. E, per la prima volta, in occasione della Cop27, sono stati affrontati anche temi relativi alla giustizia sociale – non da chi ha partecipato alla conferenza, però.
La sede del vertice ONU sul clima di quest’anno è stata la protagonista di tale novità. La posizione dell’Egitto, da tempo al centro di polemiche relative alle violazioni dei diritti umani – di cui l’Italia sa qualcosa, tra il caso Giulio Regeni e quello Patrick Zaki – ha scatenato non poche proteste, tutte chiaramente esterne alla conferenza. Il ruolo dell’Egitto e il suo contesto politico, infatti, sono solo uno degli enormi problemi di una conferenza sul clima durante la quale gli attivisti non hanno potuto neanche manifestare, in un Paese in cui non c’è spazio per il dissenso. Attualmente, infatti, sono 60mila gli attivisti per i diritti e per l’ambiente nelle carceri egiziane, Paese che alla Cop27 si è fatto promotore delle richieste del continente africano mentre della sostenibilità di qualunque tipo, dall’ambiente alla giustizia, dai diritti umani a quelli sociali, non gli importa granché.
Mentre fuori dai palazzi – e dell’Egitto – si parla di giustizia e diritti, dunque, all’interno della conferenza l’argomento principale è stato proprio l’Africa. Il fatto che la Cop27 fosse ospitata da un Paese africano ha infatti riportato al centro del discorso i problemi del luogo più colpito dagli effetti del cambiamento climatico e l’incapacità degli Stati più inquinanti di onorare gli accordi di risarcimento fissati e mai rispettati.
L’Africa, insieme ai tanti Paesi in via di sviluppo che la compongono, è il continente meno inquinante del mondo. Contribuisce solo per il 3.8% alle emissioni di CO2 globali eppure, a causa delle dinamiche climatiche e della sua posizione, è il luogo maggiormente coinvolto dalle conseguenze del cambiamento climatico e dagli eventi atmosferici estremi che causano innumerevoli danni. Secondo il Carbon Brief, infatti, solo quest’anno sono state 4mila le persone morte in Africa a causa di conseguenze dirette del riscaldamento globale e ben 19 milioni le persone costrette a lasciare le loro case, profughi nel proprio stesso Paese. Siccità e alluvioni, carestie e pestilenze, sono solo alcuni degli effetti che milioni di individui stanno vivendo, persone per la maggior parte innocenti, tra quelle che al mondo hanno meno contribuito alle emissioni.
La Cop27 ha dunque dovuto districare la spinosa questione della giustizia climatica. I principali inquinatori, infatti, sono vincolati a un risarcimento di 100 miliardi di dollari di aiuti da devolvere ai luoghi maggiormente colpiti dalle conseguenze del riscaldamento globale, per agevolare la transizione energetica in Paesi a cui sarà impedito il boom di industrializzazione inquinante con cui gli Stati attualmente ricchi sono cresciuti. Secondo i dati OCSE, però, i finanziamenti da parte del nord del mondo sono stati di 83.3 miliardi nel 2020, mentre l’obiettivo di raggiungere i 100 miliardi entro il 2023 sembrava non poter essere mantenuto.
In effetti, quello dei 100 miliardi è stato l’argomento più complicato da affrontare durante il vertice e per il quale la chiusura dei lavori è stata posticipata di due giorni. All’ottenimento dell’accordo finale però – che per fortuna garantisce la giustizia climatica e vincola al risarcimento dei Paesi africani per i danni causati dall’industrializzazione occidentale – purtroppo si oppone la mancata risoluzione del problema principale. Giustizia, diritti ed equità sono sicuramente i temi che hanno fatto più rumore – giustamente – eppure non si è trovato un vero accordo sul tema più importante: il clima.
Secondo il report presentato dall’Organizzazione Metereologica Mondiale, la temperatura media nel 2022 è stata di circa 1.15 gradi Celsius al di sopra dei livelli preindustriali. È dunque a rischio, visti i dati, l’Accordo di Parigi, dalla cui stipulazione, nel 2015, la situazione è gradualmente peggiorata: gli ultimi otto anni sono stati i più caldi di sempre.
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra il 2030 e il 2050 si prevede un peggioramento della situazione climatica che causerà circa 150mila morti l’anno. Le cause saranno svariate, dalla malnutrizione alle malattie come la malaria, fino ad arrivare allo stress psicofisico causato dalle ondate di calore, tutti fattori collegati al cambiamento climatico. La stima riguarda anche i costi dei danni alla salute, che saranno compresi tra i 2 e i 4 miliardi di dollari annui. Ma mentre la situazione dipinta dalle stime scientifiche diventa sempre più spaventosa, i Paesi che hanno partecipato alla Cop27 sono sempre meno operativi.
Dei 194 partecipanti, in atti, solo in 29 hanno presentato piani nazionali effettivamente utili e pragmatici. Il documento finale conferma in linea teorica l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1.5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, obiettivo che era già stato abbondantemente dichiarato alla Cop26 di Glasgow e all’interno dello stesso Accordo di Parigi. Eppure, così come accade per tutte le altre riunioni, summit e conferenze tutt’altro che operative, non si va mai oltre l’intenzione. Non una parola su azioni pratiche e necessarie, niente sull’eliminazione o, perlomeno, la riduzione dell’impiego dei combustibili fossili.
Può sembrare paradossale che, da una conferenza che si tiene per trovare una soluzione al cambiamento climatico, si esca senza un piano su come contenere il cambiamento climatico. Paradossale sì, ma non sorprendente, perché è questo il modello che si ripete ormai da anni, da decenni. Non c’è spazio nelle trattative per parlare in modo chiaro di azioni da intraprendere immediatamente, non c’è tempo ai summit per affrontare argomenti scomodi come le emissioni e non c’è budget nei bilanci dei singoli Paesi per salvare la Terra così come la conosciamo dal disastro climatico. È questo il triste scenario della Cop27: un mondo che si unisce senza unirsi davvero, solo per ripetere l’intenzione di fare qualcosa, senza effettivamente farla.