«Non hai ancora l’età per capire quanto diventi complicata la vita», sentenzia un anziano medico dai capelli canuti inquadrato di spalle, all’inizio del film di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide, tratto dal romanzo d’esordio omonimo di Jeffrey Eugenides (1993). Davanti a lui, con il camice azzurro di quel tessuto che sembra carta e che ti danno in ospedale al ricovero, c’è una ragazzina tranquilla che lo scruta dal basso verso l’alto prima di rispondere: «Evidentemente lei, dottore, non è mai stato una ragazzina di tredici anni».
La ragazzina è Cecilia Lisbon, ultimogenita di cinque sorelle adolescenti in una famiglia estremamente cattolica di una cittadina del Michigan, Stati Uniti. Cecilia ha appena tentato il suicidio, praticandosi dei tagli sui polsi e poi aspettando il sopraggiungere della morte in una vasca da bagno colma d’acqua calda con un santino della Vergine Maria stretto nel pugno.
La frase che rivolge al medico del pronto soccorso gela il sangue perché suggerisce l’implicazione che le esperienze di vita di un uomo adulto che ha oltrepassato i tredici anni da un pezzo e quella di una ragazzina in età puberale che decide di farla finita siano talmente distanti da risultare inconciliabili e, volendole conciliare, si dovrebbe accarezzare l’idea che la ragazzina di tredici anni non sia poi da considerarsi veramente una ragazzina, ma una donna stanca della propria condizione di donna intrappolata nella carne di un corpo che cambia.
E, in effetti, tutto il film di Coppola non fa che sottolineare, non fa che giocare con il candore adolescenziale delle sorelle Lisbon bionde come angeli a contrasto con, da una parte, il cattolicesimo soffocante dei genitori con il suo carico di senso di colpa e pudore, e dall’altra l’entusiasmo voyeur dei ragazzini del quartiere, per i quali le sorelle proibite diventano immediatamente oggetto del desiderio, terreno di conquista e occasione per esplorare, forzando il proprio ingresso nella vita delle ragazze con lo sguardo, con la mente e poi con il corpo, quella vita cui accennava il medico di pronto soccorso.
Sono i ragazzi i narratori, i ragazzi che, dopo aver fantasticato di possedere il cuore delle sorelle, traggono dalla loro tragica fine un insegnamento per le loro esistenze lunghe e, forse, malinconiche, ma tutto sommato normali. Le cose complicate della vita sono altre, a meno che tu non sia una ragazza. A meno che tutta la tua vita non si concentri sull’essere il sesso agli occhi del maschio, come scriveva Simone De Beauvoire.
Questa identificazione obbligatoria con il sesso, questa impossibilità di sfuggire allo sguardo e al possesso maschile è perno centrale del filone narrativo che innumerevoli liste Goodreads e Letterboxd, challenge su YouTube e contenuti TikTok la battezzano Feminine Rage. Ora, sulla più corretta resa di rage in italiano mi sono interrogata perché rabbia mi sembra non esprimere adeguatamente tutto lo spettro emotivo contenuto in questo genere di rage. Si tratta di rabbia femminile, dunque qualcosa che è già per definizione ossimoro, che interrompe nettamente e violentemente la narrazione di femminilità placida e composta alla quale siamo abituati. Qualcosa che resta dentro sopita a lungo, rimestata sul fuoco dello scontento irrequieto proprio della condizione “sessuata” per poi fuoriuscire in ondate laviche inarrestabili che dietro di sé lasciano solo macerie.
Per ragioni che il dizionario riesce a sbrogliare solo per metà – credo, infatti, di non riuscire pienamente a scindere dall’interpretazione del termine quella che è la mia esperienza di femmina arrabbiata – e per un irresistibile richiamo di allitterazione, preferisco alla rabbia femminile la furia e il suo impeto acceso.
Il filone narrativo della Furia Femminile abbraccia più generi, più forme espressive e più forme di rabbia. Origina nell’insofferenza di cui si diceva ed esplode in una reazione, spesso violenta, che segnala inequivocabilmente la rottura (fisica, sentimentale, psicologica), il rifiuto dello sguardo sociale maschio. La furia femminile ha sempre a che fare con il riscriversi, con la ricerca affannosa di altre parole, altri spazi di definizione in cui femminile non significhi “altro da maschio”, ma essere, essere e basta.
I am, I am, I am fa il cuore di Esther, la protagonista del romanzo di Sylvia Plath La campana di vetro (1963). Anche lei, quando sente nel petto il muscolo cardiaco e la prepotenza del suo esistere, tenta il suicidio. Su di lei è calata la campana di vetro, una depressione trasparente e soffocante, che, pur rinchiudendola, la espone comunque all’occhio apprensivo e giudicante altrui, mentre lei brancola accecata nel fumo denso del proprio umor nero.
Esther, a diciotto anni, subisce pressioni: si ritrova, studentessa modello, a dover fare i conti con l’ambizione di diventare poeta in un mondo in cui tutt’al più può aspirare a fare la stenografa e aggiudicarsi un buon partito, magari un medico, magari un vecchio compagno di scuola che è inetto, ma che importa finché vuole sposarla; un mondo in cui l’illibatezza di una certa sua parte del corpo ha più valore e più peso della sua formazione, della sua intelligenza, del suo mondo interiore. Essere moglie, nuora, fidanzatina. Essere sempre per qualcun altro. In definitiva, compiere il passo che la trasformerà da Esther a sua madre.
Il modo per ribellarsi, per affermare quel martellante I am, Esther lo trova rivolgendo la furia contro di sé. Prima sparisce la sua capacità di leggere e scrivere, il suo ossigeno, poi deve sparire il corpo, insieme alla cosa che ha dentro. Come Cecilia Lisbon, che, spettatrice del passaggio delle sorelle all’età del risveglio sessuale, ferma la giostra lanciandosi dalla finestra del secondo piano e impalandosi sul nuovo cancello di ferro battuto. Esther, invece, sopravvive al suo ultimo tentativo e finisce in una clinica. La nevrosi, però, le viene diagnosticata molto prima che provi seriamente ad ammazzarsi. Lo fa il suo fidanzato Buddy, futuro medico, quando le dice che volere troppe cose diverse dalla vita equivale a essere pazze, ambivalenti.
Ambivalenza è la parola usata per definire il disturbo borderline diagnosticato a Susanna nel film Ragazze interrotte (1999), tratto dal memoir omonimo di Susanna Kaysen. Diventata cult per l’interpretazione di Angelina Jolie e Winona Ryder, la pellicola aggiunge un altro elemento al nostro discorso. Anzitutto perché, come La campana di vetro, è ambientato negli anni Sessanta e offre, pertanto, una ricostruzione visiva della vita in clinica psichiatrica descritta anche fra le pagine di Plath. In secondo luogo perché si ripresenta, qui ancor più prepotentemente, il bisogno di indagare quel limite che sta fra la furia femminile e la follia.
A Susanna, anche lei dentro per tentato suicidio, anche lei accompagnata e tradita dalla madre, viene diagnosticato il borderline principalmente basandosi sull’osservazione della sua condotta sessuale libera e del suo senso di insoddisfazione. Viene individuata dunque, nel desiderio femminile (sessuale ma non solo), la radice del disturbo. La condizione di corpo sessuato e sensuato che contamina ogni cosa, anche l’opportunità di essere felici. E felicità per una donna significa accontentarsi dell’uno, contrastare, combattere le ambivalenze e i dubbi e le deviazioni. Costringersi all’assenso e alla docilità. Uno sforzo esasperante.
La protagonista del racconto La carta da parati gialla di Charlotte Perkins Gilman ne descrive le insidie nelle più piccole azioni quotidiane: lo sforzo di intrattenere, vestirsi, sorridere. Ancora una volta è il marito, la razionalità maschia, a spiegarle scientificamente che la sua debolezza di nervi necessita di riposo, il che vuol dire venire rinchiusa in una stanza fino a che non sarà guarita. Qualcosa, però, dietro la carta da parati, si muove e agita la sua furia femminile. Dietro la carta da parati gialla sta un’altra donna, o forse molte altre, come dietro le sbarre. I am, I am, I am, sembrano dire.