Appena pochi giorni fa, la Corte Costituzionale ha tenuto l’udienza sulla questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione lo scorso anno in tema di ergastolo ostativo, in particolare con riferimento alla concedibilità dei benefici penitenziari a chi non collabori con la giustizia o la cui collaborazione sia irrilevante (ad esempio per il minimo grado di partecipazione al delitto o perché rispetto a questo tutti gli elementi della fattispecie criminosa sono già stati individuati e accertati).
La Consulta aveva sollecitato il legislatore a intervenire nell’aprile 2021, rimandando la sua udienza per evitare che si creasse un vuoto di legge inaccettabile in un campo così delicato. Tuttavia, nessuna norma ha visto la luce fino al 31 ottobre, quando il nuovo esecutivo, in fretta e furia e con la superficialità che sembra contraddistinguerlo, ha varato un decreto legge sul tema, temendo una pronuncia di incostituzionalità e il rischio di un generalizzato “svuotacarceri”.
La disciplina è rimasta pressoché invariata – salvo alcuni aspetti addirittura peggiorativi delle precedenti disposizioni – tuttavia la Corte Costituzionale ha scelto la strada meno traumatica e più lineare, evitando uno scontro immediato con il governo e rimettendo gli atti alla Corte di Cassazione, che dovrà valutare la sussistenza e l’attualità delle ragioni alla base della questione avanzata alla luce della nuova normativa, che difficilmente, in caso contrario, sarebbe stata oggetto di pronuncia.
Si attenderà quindi la conversione del decreto e le sue eventuali modifiche: stando alla sua attuale formulazione, le perplessità sono innumerevoli, a cominciare dal fatto che solo teoricamente la presunzione di pericolosità dei soggetti condannati all’ergastolo ostativo che non collaborino con la giustizia – e il conseguente mancato riconoscimento di qualsiasi beneficio penitenziario – si è trasformata da assoluta a relativa.
Con l’ordinanza 97 del 2021, infatti, la Consulta aveva preannunciato l’illegittimità dell’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario per violazione degli articoli 3 e 27, proprio nella parte in cui fa della collaborazione con la giustizia l’unico strumento a disposizione del condannato per ottenere benefici penitenziari quali la liberazione condizionale. In quell’occasione, però, la Corte precisò che l’accoglimento immediato delle questioni avrebbe rischiato di inserirsi in modo inadeguato nel sistema di contrasto alla criminalità organizzata e assegnò al legislatore il termine di un anno per intervenire sulla materia. Termine ignorato dal vecchio esecutivo, prolungato e infine riacciuffato per i capelli dal nuovo governo che non ha mancato di riconfermare – se ci fossero stati dubbi – la sua volontà repressiva e antidemocratica.
Dello stesso tenore sono le affermazioni riguardanti la volontà di costruire nuove carceri, oltre che le proposte di legge avanzate dallo stesso partito per riformulare l’articolo 27 della Costituzione nel senso di limitare il fine rieducativo della pena ivi previsto, volendo stravolgerne di fatto il senso, o per l’introduzione del taser non solo come dotazione ordinaria delle forze dell’ordine che operano nella gestione del territorio, ma anche per la polizia penitenziaria, fino ad arrivare alla recentissima disposizione anti-rave, inserita nello stesso decreto 162 del 2022, che restringe di molto lo spazio democratico. E così, anziché accogliere le sollecitazioni provenienti dalla Consulta – che già si è pronunciata in maniera analoga sulla concedibilità, per lo stesso regime, dei permessi premio, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – che già nel caso Viola contro Italia aveva affermato la violazione della dignità umana attraverso l’istituto dell’ergastolo ostativo – si è trasformata la presunzione assoluta di pericolosità in una prova impossibile di non pericolosità.
Il detenuto per cui viga tale regime, infatti, non solo dovrà dimostrare di aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o, se questo non sarà possibile, dimostrare l’assoluta impossibilità di tale adempimento, ma anche allegare alla richiesta di usufruire dei benefici elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza.
Si precisa inoltre che verranno valutati, ai fini di stabilire l’assenza di qualsiasi collegamento con la criminalità organizzata, tutte le circostanze personali e ambientali, oltre che le ragioni dedotte a giustificazione della mancata collaborazione, l’eventuale revisione della condotta criminosa e le azioni adottate nei confronti delle vittime, anche sotto forma di risarcimento. Secondo molte autorevoli voci, si scarica di fatto un gravoso onere della prova sul condannato, che si troverà probabilmente nell’impossibilità di fornirla. Per alcune tipologie di reato, inoltre, la disciplina prevede un innalzamento della pena da espiare (da 26 a 30 anni) per accedere alla sola richiesta di liberazione condizionale.
Se di per sé l’utilizzo di uno strumento come il decreto legge pare inappropriato per affrontare una tematica così delicata, oltre che non rispondente ai principi di necessità e urgenza cui il suo uso dovrebbe ispirarsi – come dichiarato anche dall’Unione delle Camere penali – il contenuto è anche peggio. Si calpesta del tutto non solo il principio di uguaglianza, ma soprattutto quello riguardante il fine rieducativo della pena, che senza speranza di rientro in società non è altro che punizione, fine a se stessa, capace solo di nutrire istanze vendicative.
Si tratta inoltre di un istituto che, nato come eccezionale e frutto di una disciplina emergenziale e rispondente a precise esigenze temporali, non si è soltanto stabilizzato nel nostro ordinamento, ma ha ampliato a mano a mano la sua portata, comprendendo fattispecie tra loro molto diverse e non più ricollegabili alla sola criminalità organizzata. È così diventato un vero e proprio strumento politico, tanto che attualmente i detenuti cosiddetti ostativi sono 1259, il 70% degli ergastolani totali.
A nulla valgono quindi le parole virtuose del neo Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che parla di pena rieducativa e che non si sconti necessariamente in carcere. Proprio lui, che tempo fa aveva definito l’ergastolo ostativo un’eresia contraria alla Costituzione e al nostro stato di diritto. Non si rende forse conto degli atti dello stesso governo di cui fa parte?
Speriamo quindi che si torni presto al vaglio della Consulta. Per una norma che mostra oramai da anni segno di cedimento, che ha oramai abbandonato il fine primario con cui era stata emanata, ma che tuttavia viene strenuamente difesa, nascondendosi dietro allo spauracchio della sicurezza. Avviare un ragionamento serio sul carcere, sulla sua funzione, su un utilizzo che sia strettamente necessario e che sappia contemperare le esigenze della collettività e quelle di un individuo, il cui percorso va valutato con attenzione, singolarmente e senza facili stereotipizzazioni. Questo non è il carcere. Questa non è la realtà.